Cari Amici di Articolo 21, un po’ di spazio, per favore, per due parole su Franco Alfano, nostro collega che ci ha lasciato poche ore fa. Franco è una parte della storia di tanti di noi che se ne va; uno che aveva una visione del mondo ben precisa, e che non nascondeva: quando sono entrato, ormai secoli fa, al “TG2”, lui era già lì, in quota neppure democristiana: andreottiana; non lo nascondeva, lo rivendicava, e nel farlo ci rideva sopra, facendoci ridere. Ma soprattutto era figlio di una cronaca di cui si è perso gusto e capacità: quando c’era la “notizia”, non c’era Andreotti che tenga: vai con la notizia. Lo dico per una personale esperienza.
Assegnato al processo del delitto del giornalista Mino Pecorelli, il direttore di “O.P.” che tante ne ha scritte su tanti (e tanto minacciava di scrivere), seguo le udienze del processo, che si celebra nell’aula ricavata nel carcere di Capanne, a Perugia. Gli imputati sono tanti: il boss mafioso Pippo Calò; alcuni elementi della onnipresente Banda della Magliana; un neofascista che poi ritroveremo in altre vicende a noi più vicine, Massimo Carminati; e due politici: Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, accusati in sostanza d’essere i mandanti del delitto. Il processo poi finirà in gloria: tutti assolti perché le accuse non hanno retto al vaglio dei giudici, ma non è questa la cosa che qui importa. Il fatto è che in una certa udienza depone il cognato di Pecorelli, che all’interno della redazione aveva funzione di factotum. E’ uno degli ultimi, ad aver visto Pecorelli vivo. Racconta che il giornalista gli ha confidato, poche ore prima di essere ucciso, di aver trovato del materiale che avrebbe risolto tutti i problemi. Che materiale? Non si sa. “Stai attento, che rischi grosso”, raccomanda il cognato. E Pecorelli: “Tranquillo”; poi, come una sorta di presagio: “Comunque si trova sempre un gobbo che ti fa la pelle”. Non sarà stato il “gobbo”, ma la pelle comunque gliela fanno.
In sostanza questo racconta nella sua deposizione, il cognato. Nulla, di penalmente rilevante; ma suggestivo quanto basta.
Ora la telefonata tra il giovane giornalista a Perugia, e lo scafato vice-direttore del “TG2” responsabile di quell’edizione del telegiornale:
“Franco, ha deposto il cognato…”.
Che dice?
Ha parlato con Pecorelli poco prima che lo ammazzassero, racconta della confidenza avuta: aveva messo le mani su qualcosa di grosso…”.
Va bene, facciamone un fuori-campo…
“Lo racconta in voce, abbiamo registrato il sonoro…”.
Va bene, fai un minuto, non di più, che c’è tanto altro…
“Dice che con quella roba avrebbe fatto un bel botto…”.
Un minuto e quindici…
“Aggiunge che Pecorelli un po’ scherzando, un po’ no, gli confida che potrebbero fargli la pelle…”.
Un minuto e trenta?
“Pecorelli, secondo il cognato, avrebbe poi detto che c‘è sempre un gobbo pronto a farti la pelle, e ne fa il mimo in aula. Abbiamo le immagini…”.
Prenditi tutto il tempo che ti serve…
Ecco: questo è il Franco Alfano che io ho conosciuto. Lo ricordo solo ora perché tutti noi sappiamo che è stato lui a riprendere il corpo di Aldo Moro, ucciso e rannicchiato nel portabagagli della Renault rossa abbandonata in via Caetani. Quello è stato lo scoop che ogni giornalista degno di questo nome sogna di fare, e che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo: inizio di una lunga carriera costellata certamente anche da compromessi e “do ut des”, come accade di doverne fare a chiunque di noi, e soprattutto se si diventa “qualcuno”. I politici, e la politica in Italia in particolare, fanno favori solo se in cambio ne hanno di altri, nessuno regala nulla. Anche Franco, dunque, avrà pagato dei prezzi, dei pedaggi. Ripeto: come ognuno di noi, e non solo in RAI: che nelle televisioni private e nella carta stampata ho motivo di credere possa perfino esser peggio.
Franco sapeva benissimo che il mio credo era diverso, opposto dal suo. Sapeva benissimo che le mie simpatie vanno a un mondo, quello radicale, che vedeva e considerava con occhio più che critico quelli che erano i suoi punti riferimento politici ed ideali. Al tempo stesso come negare che pur nelle diversità, ci univa l’amore per il “fatto”, per la “notizia”; e che non si è mai azzardato a toccare una virgola ai miei servizi, al loro contenuto? E’ stato, Franco, un pezzo di storia del “TG2”, della storia della RAI, della televisione.
Anche quando ha lasciato il “TG2” per approdare ad altri lidi, chiamato ad altre responsabilità, Franco non mancava mai una sua telefonata, quando capitava di fare un servizio che gli era piaciuto, che lo aveva stuzzicato. Ed era, quando accadeva di incrociarsi o di scambiare qualche parola al telefono, un fuoco d’artificio di battute, di lazzi e di frizzi, ultimamente venati da una certa malinconia: perché il “suo” mondo, probabilmente se ne rendeva conto, non era più – o era sempre meno – il mondo che oggi conosciamo. Un rimpianto, forse, per quello che avrebbe potuto essere, e invece è.
Non gliel’ho mai detto, e avrei invece dovuto: Franco mi ha insegnato qualcosa, e gliene sono grato. Come i tanti, che ho avuto la fortuna di conoscere, e hanno avuto la pazienza di sopportare le mie ingenuità, le mie irrequietezze, non mi hanno fatto pesare i miei errori, e hanno anzi cercato di coprirli. I miei, come quelli di tanti altri.