Budapest, sessant’anni dopo. Abbiamo ancora in mente lo studio, e per chi c’era il ricordo, della barbara repressione compiuta dai sovietici a danno della speranza di un socialismo più rispettoso dei diritti umani, del quale si fece carico un coraggioso presidente ungherese di nome Imre Nagy, il quale pagò con la vita la propria ribellione ai rigidi dettami di Mosca e il desiderio di emanciparsi dalla miseria nella quale era costretto a vivere il suo popolo.
Erano gli anni dell “Aranycsapat”, ossia della Grande Ungheria di Puskás, Czibor e Hidegkuti, capace di inventare quello stile di gioco avvolgente e spettacolare che avrebbe trovato la sua definitiva consacrazione mezzo secolo dopo, quando l’avrebbe riproposto il Barcellona di Guardiola con i suoi funamboli destinati a segnare un’epoca.
Erano anni difficili per un Paese che, uscito dalla Seconda guerra mondiale, era precipitato fra le spire del Patto di Varsavia e non trovava pace, dopo aver visto la propria formidabile nazionale, unica fonte di gioia per cittadini poverissimi e privi di ogni speranza, perdere in maniera incredibile un Mondiale, quello svizzero del ’54, che sembrava già vinto. Vinse, infatti, la Germania, non ancora divisa a metà dal Muro ma già condotta nell’orbita occidentale grazie alle intuizioni di Adenauer e alle pressioni di un’America desiderosa di far rispettare alla lettera gli accordi di Jalta.
Erano gli anni della Honvéd, il leggendario squadrone in cui si affermò un fuoriclasse assoluto come Ferenc Puskás, talmente forte che avrebbe illuminato per anni la platea madridista del Bernabéu, contribuendo in maniera decisiva all’affermazione dei bianchi di Spagna e alla creazione di un mito immortale che, non a caso, è stato incoronato miglior club del Ventesimo secolo.
Tuttavia, erano anche gli anni dei primi tentativi di riforme, con Nagy precursore dei cecoslovacchi Dubček e Svoboda, del “socialismo dal volto umano” e del tentativo di democratizzare e mettere nuovamente l’uomo al centro di un progetto totalitario e totalizzante.
Erano gli anni del cardinale Mindszenty, costretto a rifugiarsi presso l’ambasciata americana e a rimanervi per ben quindici anni. Ed erano gli anni in cui un colonnello patriottico di nome Pal Maleter antepose gli interessi del proprio Paese alla sua stessa vita, schierandosi al fianco degli insorti e condividendo con Nagy e il giornalista Miklos Gimes la stessa tragica fine: li impiccarono all’alba del 16 giugno 1958 e a chiederne la condanna fu un procuratore, Szalay, che sette anni dopo si pentì amaramente e fu costretto a vivere, da quel momento, con il rimorso di aver commesso una barbarie destinata a condizionare irrimediabilmente il corso della storia ungherese ed europea.
Infine, erano gli anni in cui Indro Montanelli, inviato del Corriere della Sera, conobbe da vicino il dramma dell collega dell’Unità, stretto nella morsa tra la voce della coscienza e l’obbligo di fornire le verità ufficiali, la narrazione dei fatti gradita a un partito che, in quell’occasione, vide allontanarsi alcuni dei suoi migliori intellettuali: da Giolitti a Calvino, senza dimenticare Ghirelli e un giovanissimo Alberto Asor Rosa. In quel contesto, un Montanelli già affermato scrisse un’opera teatrale dal titolo profetico e significativo: “I sogni muoiono all’alba” ma fu anche costretto a rivedere, almeno in parte, il proprio giudizio in merito al comunismo italiano, cogliendone le differenze rispetto all’aberrazione di oltre Cortina.
Era l’autunno del 1956 e il dibattito dilaniò il PCI, con Togliatti rigidamente aggrappato all’alleanza con Mosca e l’allora segretario della CGIL, Di Vittorio, convinto al contrario che avessero ragione i rivoltosi, composti per lo più da quei ceti, studenti e operai, ai quali il partito diceva di rivolgersi in Italia.
Un anno di frattura, dunque, decisivo, tragico, straziante, segnato dal tradimento di Janos Kádár e dalla grettezza delle varie forze del comunismo europeo, incapaci di intuire la gravità delle conseguenze di quella scelta dell’Unione Sovietica e di confrontarsi con una base granitica ma, al fondo, irrequieta, come emergerà alle nostre latitudini tredici anni dopo, quando il gruppo del Manifesto contesterà la repressione della Primavera di Praga e subirà, per questo, una delle più celebri espulsioni di tutti i tempi.
Vien da chiedersi cosa ne sarebbe stato dell’Ungheria, e cosa ne sarebbe ai giorni nostri, se il regime sovietico non avesse soffocato nel sangue quella rivolta, se il buon Chruščëv, dopo aver denunciato i crimini di Stalin nel corso del Ventesimo congresso del PCUS, avesse dato seguito al filone illuminato che sembrava aver imboccato e se gli altri partiti dell’Internazionale comunista si fossero opposti alle imposizioni di un padrone dai piedi d’argilla, destinato trent’anni dopo a collassare e a trascinare dietro di sé una storia che altrove, ad esempio in Italia, aveva avuto invece una sua nobiltà.
Vien da chiedersi cosa ne sarebbe stato di quei ragazzi cresciuti in un campetto brullo di Kispest, di quella formazione magiara che faceva tremare e innamorare il mondo, di quei personaggi che sembravano usciti dalla penna di Molnar, generali di un esercito destinato a implodere, regalando all’Europa una serie di fuoriclasse che hanno fatto la fortuna, in particolare, di Real Madrid e Barcellona.
Perché chi è stato, in fondo, Puskás se non un Imre Nagy realizzato, un ribelle che si è salvato e che la malinconica Budapest non ha mai smesso di rimpiangere, un rivoluzionario che usava i piedi ma che aveva anche la forza, l’ardimento e un sufficiente amore per se stesso e per la propria terra per non trasformarsi nella bandiera di un impero barbaro? E così tutti gli altri, figli di quel tempo oscuro, costretti da ragazzi a mangiare il pane che sa di cartone e a inseguire sogni più grandi di loro, incapaci di renderli pienamente felici anche quando furono, esuli, all’apice della gloria e della grandezza.
E oggi l’Ungheria tace, soffre, attende, sotto i colpi di un governo indegno che sta smantellando le poche conquiste sociali e civili di un popolo che non ha mai imparato a volersi bene, a reagire e che, proprio per questo, esercita tuttora un fascino misterioso e, al tempo stesso, tragico.
Budapest, sessant’anni fa e nel mezzo il degrado di un’idea che, senza un forte ancoraggio democratico, non poteva avere un domani e, non a caso, è stata spazzata via pressoché ovunque, anche in quei paesi nei quali aveva alle spalle una gloriosa storia di difesa dei diritti, delle libertà e dei valori resistenziali che hanno improntato i primi decenni del dopoguerra.
Budapest, solitaria e fragile, ricordando quel cielo grigio, presago di sventure, e quell’autunno che non è mai finito e, probabilmente, non finirà mai.