di Roberto Bertoni
Una Spagna praticamente marziana ci ha inflitto una lezione che non dimenticheremo. Hanno dominato dal primo all’ultimo minuto, hanno imposto il loro gioco scintillante, hanno vinto 4 a 0 e, se il risultato fosse stato ancora più rotondo, non ci sarebbe stato nulla da eccepire. In poche parole, hanno meritato e hanno raccolto i frutti di anni di lavoro, di impegno, di serietà, di abilità organizzativa e di valorizzazione dei giovani e del talento.
All’Italia, squadra volenterosa e piena di ragazzi in gamba, rimane la soddisfazione di aver comunque conseguito un ottimo secondo posto e di aver stupito tutti, a cominciare da noi italiani che, alla vigilia del torneo, pronosticavamo in molti un rientro in Patria dopo le prime tre partite.
Tuttavia, volendo entrare nel merito di quanto è avvenuto, è doveroso sottolineare alcuni dei principali motivi per i quali la Spagna ci ha inflitto una così sonora lezione. Al di là del bel gioco, delle caratteristiche tecniche e tattiche dei singoli, della classe infinita di gente come Xavi, Iniesta e Fabregas a centrocampo e dell’abitudine a vincere che questi campioni hanno maturato in anni e anni di trionfi a ripetizione, è opportuno riflettere per l’ennesima volta sul divario che ci separa dagli spagnoli e cioè l’utilizzo dei vivai, l’idea di far crescere i fuoriclasse di domani all’interno della stessa squadra, partendo dalle giovanili, giocando a tutti i livelli con lo stesso modulo, come avviene nel Barça, così da rendere più facile l’inserimento dei “canterani” negli schemi della prima squadra.
Senza dimenticare la bellezza degli stadi sempre pieni, l’emozione di un pubblico appassionato e composto, il senso di libertà che trasmette la maggior parte delle gare della Liga, la spensieratezza con la quale si vive il calcio, e lo sport in generale, da quelle parti. In Italia, invece, non c’è campionato o coppa che non rechi dietro di sé uno strascico di polemiche, veleni, insulti, indagini giudiziarie, sospetti, battute al vetriolo, scambi di accuse talmente violente da far impallidire persino un contesto non meno rovente come quello politico. Senza dimenticare lo strapotere delle pay-tv, che dettano i calendari e costringono i calciatori a giocare alle tre di pomeriggio a maggio e alle nove di sera a gennaio, magari con la neve, gli stadi semi-vuoti, la violenza, il razzismo e molto spesso l’odio che si vede nelle curve, lo spettacolo scadente, le squadre imbottite di stranieri e i nostri giovani costretti ad emigrare verso altri lidi, come ad esempio Balotelli, elevato al rango di eroe nazionale dopo la doppietta alla Germania in semifinale ma costretto a saltare tutta la trafila delle giovanili della Nazionale a causa del mancato riconoscimento della cittadinanza italiana fino all’età di diciott’anni.
Ciò che più sorprende degli spagnoli è che sono quasi tutti ragazzi poco più che ventenni, i miti della nostra generazione, gli idoli con i quali siamo cresciuti, che vediamo in campo da quando andavamo ancora alle medie e che da allora hanno vinto tutto quello che potevano vincere, mantenendo sempre i piedi per terra, restando umili, rispettando qualunque avversario, evitando atteggiamenti sbruffoni o inutili smargiassate, pur sapendo di essere i migliori o, forse, proprio per questo.
Il meraviglioso Barça di Pep Guardiola, lo squadrone che insieme al Real Madrid costituisce il nocciolo duro della Spagna di Del Bosque, mi ha accompagnato negli anni del liceo e in questi primi anni di università; Casillas me lo ricordo tra i pali del Real, con Del Bosque in panchina, quando ancora frequentavo addirittura le elementari e la passione per il calcio stava entrando lentamente nella mia vita.
Molti dei campioni spagnoli sembrano ormai gente di famiglia, compagni di scuola soltanto un po’ più ricchi e famosi, amici veri, perché in fondo non hanno mai smarrito la naturalezza di quando sognavano di conquistare la metà dei trofei che hanno alzato al cielo, non hanno smesso di vivere con gioia e serenità, di giocare per la squadra, di trasformare ogni partita in un manifesto contro l’egoismo e l’individualismo che martirizzano la nostra società.
Ora che ci hanno battuto (non umiliato, come sostiene erroneamente qualcuno), aggiudicandosi il secondo titolo europeo consecutivo, con in mezzo il mondiale del 2010, siamo certi che festeggeranno come è giusto che sia, si concederanno un breve periodo di vacanza e poi torneranno ad allenarsi con umiltà, con dedizione, riponendo l’ennesimo alloro in bacheca e ripartendo daccapo, come quando da bambini si recavano al campo d’allenamento con una voglia matta di spaccare il mondo e di imitare le gesta dei loro eroi.
Non è un caso se non si conoscono eccessi dei giocatori spagnoli: né in campo né nella vita.
Nonostante l’accanimento dei media, le sirene del gossip e la montagna di soldi che guadagnano, questi ragazzi sono riusciti nell’impresa di conservare intatta la naturalezza di quando nessuno li conosceva, di quando erano promesse per il futuro, di quando ancora molti avevano l’impressione che la Spagna fosse un’eterna incompiuta, un po’ come il Portogallo.
Di fronte a questi dati, impallidisce il nostro povero calcio, che negli ultimi anni ha anche perso una squadra in Champions League, i cui club considerano l’Europa League una seccatura anziché una manifestazione da onorare fino in fondo, i cui presidenti continuano a spendere e spandere allegramente e ad allestire spesso delle armate brancaleone che, a metà campionato, sono già fuori da tutte le competizioni e non perdono occasione per lamentarsi degli arbitraggi dopo aver fornito prestazioni da incubo.
Se davvero vogliamo far sì che questo tracollo contro la Spagna, che non è solo il tracollo dei ragazzi di Prandelli ma quello di un intero movimento, di un sistema sbagliato, di una Nazione che tende sempre più ad emarginare i giovani, non sia stato vissuto invano, dobbiamo innanzitutto avere l’onestà intellettuale di riconoscere che abbiamo meritato di perdere contro un avversario nettamente più forte e poi prendere esempio, lanciando forze fresche, tornando a scommettere sui vivai, chiudendo rapidamente le burrasche giudiziarie che si sono abbattute negli ultimi mesi nel nostro calcio, condannando con pene adeguate chi ha sbagliato e trovando in noi stessi il coraggio di ripartire, di guardare avanti, di far tornare in Italia i talenti come Balotelli, che ha preferito andare a giocare all’estero per sentire un po’ meno ululati razzisti dagli spalti ma, in particolare, per riappropriarsi della giovialità che deve caratterizzare un ragazzo fortunatissimo di appena ventuno anni.
Un tempo si diceva che il calcio è uno dei più fedeli specchi del Paese: è ancora così. L’Italia di Prandelli ha dato l’anima, ha raggiunto una finale in cui – come detto – all’inizio nessuno credeva, è andata oltre le più rosee aspettative e ha avuto il merito di restituire un minimo di serenità ad un popolo affranto e costretto a patire sofferenze ben peggiori di una sconfitta calcistica.
Senz’altro, nei prossimi giorni assisteremo alla consueta sagra dei commissari tecnici improvvisati, di coloro che sapevano tutto, che avrebbero schierato la formazione perfetta, che avrebbero dominato gli spagnoli senza dar loro tregua. Personalmente, invece, sento di dover dire grazie a Cesare Prandelli e agli Azzurri per aver fatto molto più di quanto sperassimo, per averci regalato l’illusione di un successo che, a pensarci bene, era al di là delle nostre possibilità, per aver restituito un pizzico di dignità e di felicità ad un Paese umiliato e con il morale a terra e per aver posto basi solide per rinascere e vincere in futuro.
Grazie lo stesso ragazzi. In quest’anno che sembra stregato e contro questa Spagna oggettivamente fenomenale, era impossibile chiedere di più.