Ricorre quest’anno il sessantacinquesimo anniversario di una tragedia che pochi ricordano ma che ha segnato un passaggio importante nella storia del nostro paese: l’alluvione del Polesine del novembre 1951, una barbarie d’acqua che si abbatté su una delle zone all’epoca più povere d’Italia, una zona dalla quale si emigrava in America o in Belgio alla ricerca di un futuro migliore, una zona sconvolta dalla pellagra, dove molte persone avevano a disposizione al massimo un po’ di polenta. Ma, soprattutto, una zona sconvolta dalla guerra, al confine fra l’Emilia e il Veneto, con le cantine ancora piene di armi, nella quale fino a pochi anni prima ci si sparava addosso e si verificano rappresaglie e rastrellamenti; una zona nella quale lo scontro fra comunisti e democristiani, specie dopo le elezioni del ’48, era al diapason. Eppure, quel popolo, misero e devastato dalla ferocia della natura, si unì, si fece forza, si rimboccò le maniche e, in pochi decenni, trasformò una terra all’epoca disperata in una delle aree più ricche e produttive del Paese.
Perché è stato possibile tutto questo? Come è potuto succedere? Grazie a una classe dirigente incredibilmente migliore rispetto a quella attuale, non c’è dubbio, ma non è che allora mancassero diverbi, scontri e colpi bassi, non è che la Guerra fredda, con tutte le sue tragiche conseguenze, non si facesse sentire, non è che l’Italia scoppiasse di salute o vi regnasse la “concordia omnium”; se tutto ciò è stato possibile, è perché fra il ’46 e il ’47 alcuni uomini che avevano conosciuto il diluvio del fascismo e della guerra civile, che erano stati in montagna per difendere i diritti e le libertà collettive, che si erano battuti per una società più giusta e nella quale nessuno venisse lasciato indietro, quegli uomini redassero una Costituzione destinata a diventare la casa comune del nostro popolo, la base del nostro stare insieme, il punto di riferimento di una comunità capace di dividersi sugli obiettivi e sulle mete da raggiungere ma di riconoscersi in un insieme di valori da tutti riconosciuti e rispettati.
Basta riguardare i film di don Camillo per rendersi conto che il comunista che aiuta il democristiano a svuotare la cantina invasa dall’acqua non è solo una bella pagina di cinema e di letteratura, nata dalla penna feconda del Guareschi: era la realtà di un’epoca nella quale si mise la solidarietà al primo posto, proprio al fine di ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto, di ricucire i rapporti umani, di rafforzare quel tessuto sociale e civile che le divisioni del passato avevano sfibrato e di guardare al domani insieme, senza nascondere le differenze ma trovando la forza di unirsi nei momenti difficili.
Non è retorica ricordare tutto questo: è la verità ed è una verità che abbraccia l’intero arco della storia repubblicana. La Costituzione, infatti, ci ha consentito di sopravvivere alla maledetta estate del ’60, quando le decisioni sbagliate del governo Tambroni trascinarono l’Italia sull’orlo di una nuova guerra civile. E ci ha consentito di uscire indenni dalla maledetta stagione del terrorismo rosso e nero, quando i morti erano quasi uno al giorno, su entrambi i versanti, e la criminalità faceva il resto.
La Costituzione si è rivelata più forte dello stragismo mafioso del biennio ’92-’93, del berlusconismo e delle sue anomalie, di una globalizzazione sregolata e foriera di innumerevoli ingiustizie e persino delle divisioni violente, ai limiti dell’indecenza, di questa stagione nella quale è, purtroppo, andata perduta la sacralità delle istituzioni.
E se tutto ciò è accaduto, se siamo ancora un Paese unito, al netto delle forti pulsioni divisive cui siamo stati sottoposti negli ultimi vent’anni, persino da partiti a lungo protagonisti dell’attività di governo, se siamo ancora una Nazione ricevuta con tutti gli onori alla Casa Bianca, il merito è proprio di questa casa comune nella quale sono racchiuse le fondamenta del patto che ci lega.
È bene, poi, fugare il dubbio e confutare la tesi di quei simpatici sostenitori del SÌ che vanno ripetendo da mesi che noi che siamo schierati per il NO non avremmo proposte alternative: è vero esattamente il contrario. Io stesso, nel mio piccolo, ho proposto un sistema monocamerale, con 500 deputati eletti con un proporzionale temperato con sbarramento al 4 per cento, introduzione della sfiducia costruttiva, corsie preferenziali per alcune proposte del governo, per quanto concerne determinate materie stabilite insieme e sancite dalla nuova Costituzione, e la possibilità, per l’esecutivo, di varare un massimo di dieci decreti legge l’anno, aggiornando l’importantissimo articolo 77 che parla esplicitamente della possibilità di ricorrere a questo strumento solo “in caso di necessità e urgenza”. Inoltre, si potrebbe rivedere l’assetto delle regioni, procedendo a un riordino che preveda quattro macro-regioni (Nord-ovest, Nord-est, Centro e Sud) più Sicilia e Sardegna, rafforzando le competenze della Conferenza Stato-Regioni e creando un apposito comitato di conciliazione per favorire un confronto costruttivo fra due organi essenziali nella vita del Paese. Quanto al CNEL, si potrebbe ridurre per dimensioni e indennità e trasformare in un organismo interno alla Camera, con il preciso scopo di coadiuvare le commissioni Bilancio e Lavoro, armonizzandone le proposte e accrescendone la qualità legislativa. Nell’ambito di una sana, e auspicabile, riforma dei regolamenti parlamentari, infine, si potrebbero anche accorpare le commissioni Bilancio e Finanze e le commissioni Esteri e Politiche comunitarie, così da avere un processo legislativo più snello e funzionale alla complessità del nostro tempo, il quale richiede effettivamente una maggiore rapidità decisionale, senza mettere a repentaglio la democraticità del medesimo. A corredo di queste proposte, non sarebbe male introdurre le elezioni di medio termine sul modello americano o, meglio ancora, ridurre da cinque a quattro anni la durata della legislatura, al fine di avere un’assemblea sempre in sintonia con gli umori del paese, senza ricorrere frequentemente a elezioni anticipate, il che ha creato, in passato, un senso di incertezza globale riguardo all’affidabilità dell’Italia.
Nessuna variazione racchiusa nella riforma Renzi-Boschi-Verdini va in questa direzione: da qui il mio NO convinto a un impianto che, oltre ad essere stato concepito senza alcuno spirito costituente, modificando la seconda parte della Carta, di fatto, snatura e mina la prima, lasciandoci con una Costituzione monca, divisiva e redatta a immagine e somiglianza di un esecutivo miope che ha già ampiamente fallito gli scopi che si era prefissato e che ora sta trascinando l’intera comunità nazionale in un rodeo dal quale, comunque vada a finire il prossimo 4 dicembre, usciremo più fragili e più soli.
Mi spiace, ma la Costituzione o è la casa di tutti o non è e noi non possiamo permetterci una non Costituzione solo per assecondare le ambizioni smisurate di un soggetto che, per utilizzare una bella definizione di Cuperlo, “non ha la statura del leader ma coltiva l’arroganza del capo”.