Nella parabola umana, politica e militare di Moshe Dayan, scomparso il 16 ottobre 1981 all’età di sessantasei anni, è riassunta gran parte della storia di Israele nel ventesimo secolo.
A sua volta allievo e delfino di David Ben Gurion, padre dello Stato ebraico, Dayan ha avuto meno tempo, rispetto a Shimon Peres, per trasformarsi da falco in colomba, per scoprire l’importanza e il valore supremo della pace e per mettere in atto gli insegnamenti del rivale Rabin, protagonista della svolta di inizio anni Novanta, prontamente soffocata nel sangue da un fondamentalista ebreo incapace di concepire il rispetto per la dignità altrui e di accettare il concetto stesso di fratellanza universale.
Celebre per la benda nera sull’occhio, che mise in seguito a una drammatica ferita riportata durante la Seconda guerra mondiale, Dayan è stato l’emblema della politica muscolare dello Stato ebraico, partecipando, con ruoli di primo piano, sia alla Guerra dei sei giorni del ’67 che a quella del Kippur del ’73 e lanciandosi poi verso una carriera politica cui solo il tumore che lo ha stroncato a neanche settant’anni ha posto fine, altrimenti non c’è dubbio che sarebbe stato uno degli attori mondiali più importanti nel contesto dei ruggenti anni Ottanta reaganian-thatcheriani, probabilmente rallentando non poco il processo di incontro e di avvicinamento fra israeliani e palestinesi che raggiunse l’apice con gli Accordi di Oslo del ’93 e con l’assegnazione, nel ’94, del premio Nobel per la Pace a Peres, Rabin e Arafat.
Nella vicenda storica di Moshe Dayan è racchiuso l’orgoglio triste di un popolo irrequieto, alla costante ricerca di una legittimazione internazionale che pure meriterebbe ma che dovrebbe essere, al contempo, accompagnata dal riconoscimento del non meno degno popolo palestinese. Un popolo guerriero, in lotta con se stesso e con le proprie paure, con le proprie insicurezze, con i propri dubbi esistenziali, con la propria fragilità e con la necessità di difendersi ogni giorno da pericoli reali e immaginari, costruiti ad arte da governanti troppo spesso animati da un perverso desiderio di menare le mani. Un popolo che, dal ’48 in poi, ha conquistato una patria ma ha smarrito la serenità. Un popolo conquistatore ma soggiogato, a sua volta, dall’estremismo di falchi senz’anima né dignità come Netanyahu. Un popolo di cui Dayan costituisce l’autobiografia, nel bene e nel male, e per questo, a trentacinque anni dalla scomparsa, gli rendiamo omaggio, senza tacere sul controverso profilo di una personalità ambigua che provò ad adattarsi al mutare dei tempi e degli eventi ma, sostanzialmente, non vi riuscì mai, piena com’era di sé e dei suoi effimeri sogni di gloria. Uno sconfitto indomito, incapace di arrendersi, incapace di rassegnarsi, piegato unicamente da un male incurabile e destinato comunque a continuare a vivere nello spirito e nelle idee di un popolo di cui ha contribuito, forse più di ogni altro, a forgiare il carattere.