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Ugo Pecchioli e gli errori del PCI

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Duole dirlo, ma Ugo Pecchioli, scomparso vent’anni fa all’età di settantuno anni, è stato senz’altro una brava persona ma non un buon politico.
Intendiamoci: per comprendere una figura tanto complessa e delicata è indispensabile collocarla nel suo tempo e non c’è dubbio che l’epoca in cui ha agito il compagno Pecchioli sia stata una delle peggiori e delle più amare della nostra storia.
Partigiano torinese, classe ‘ 25 (lo stesso anno di nascita di Napolitano e Reichlin), si guadagnò sul campo ben due Croci al valor militare e maturò in quel periodo la decisione di aderire al PCI, al fine di far vivere in una militanza politica attiva e partecipe la propria passione civile e i propri ideali anti-fascisti.
Dopo alcuni decenni di impegno locale, con crescenti responsabilità e l’acquisizione di un prestigio via via sempre più consistente, venne eletto al Senato nel ’72 e vi rimase fino al ’92, restando membro, fino all’83, della Direzione nazionale del partito e divenendo responsabile della sezione Problemi dello Stato.
Una biografia da perfetto funzionario, dunque, anche se sarebbe ingeneroso non mettere in risalto che Pecchioli è stato, al tempo stesso, un grande uomo di cultura e un vero esperto delle questioni attinenti alla riforma dello Stato e alla lotta contro mafia, criminalità organizzata e terrorismo nonché in difesa dell’ordine democratico.
Il guaio è che egli è stato anche il principale responsabile dei due più gravi errori commessi dal PCI e dalla segreteria Berlinguer in un decennio complesso e delicato come gli anni Settanta, quando i giovani iniziarono a combattere contro l’ordine costituito e nuove formazioni politiche, la famosa sinistra extraparlamentare, per quanto esigue, salirono alla ribalta, fino a produrre, al proprio interno, il demone della violenza che sarebbe poi sfociato nell’attacco al cuore dello Stato, con azioni riprovevoli e pericolosissime per la tenuta democratica e la stabilità del Paese. E fu proprio in questo contesto che il funzionario Pecchioli evidenziò tutti i suoi limiti, conducendo il PCI sulla linea dura del non ascolto e della mancanza di dialogo con un universo nell’ambito del quale sarebbe stato, invece, opportuno e necessario compiere una selezione chirurgica degli elementi, tentando di separare la gioventù arrabbiata e desiderosa di un cambiamento effettivo, e assai più forte rispetto a quello prospettato da Berlinguer con il Compromesso storico, da coloro il cui unico desiderio era quello di menare le mani, salvo poi trasformarsi, in alcuni casi, in zerbini e lacchè di quello stesso potere che da ragazzi avevano contestato fino a spingersi ai limiti dell’eversione.

E sì che tirava una pessima aria, sì che il Paese era seriamente esposto al rischio di un colpo di Stato, sì che i timori di Berlinguer e del gruppo dirigente del PCI erano tutt’altro che infondati, sì che dopo la tragedia di Allende il campanello d’allarme era suonato in maniera chiara e non era possibile sottovalutarlo, sì che, con ogni probabilità, il compromesso con la Democrazia Cristiana e l’avvio di quella Terza fase prospettata da Moro, ossia finalmente di una salutare democrazia dell’alternanza, era la frontiera più avanzata lungo la quale avventurarsi, in un quadro internazionale oggi difficile persino da descrivere, figuriamoci da comprendere, infine, a scusante del povero Pecchioli, va anche detto che su una parte dei sessantottini persino Pasolini non è che avesse tutti i torti, è così, ma resta il fatto che il funzionario Ugo Pecchioli commise comunque due errori esiziali per il prosieguo della vicenda comunista.
Stretto nelle rigidissime maglie del suo rigore sabaudo e del suo piglio quasi militaresco, questo soldato al servizio della causa del PCI finì col condurre la propria chiesa a non comprendere né l’aspetto positivo insito nel movimentismo un po’ sgangherato e molto utopistico ma comunque meritevole d’ascolto dei figli del dopoguerra e del boom né, e questo è assai più grave, le molteplici ragioni di coloro che nel ’77 palesavano dei dubbi, poi rivelatisi esatti in seguito al delitto Moro, circa una strategia difficile da capire e, soprattutto, da accettare.

Il soldato Pecchioli preferì affilare le armi anziché dialogare, fino allo sbaglio mortale di perseguire la linea della fermezza nei cinquantacinque giorni del rapimento Moro, quando l’unico ad aver capito tutto, spiace dirlo, fu proprio Bettino Craxi, la cui intuizione di trattare apertamente con i terroristi fu, a nostro giudizio, uno degli elementi che gli permise di consolidare il potere all’interno del PSI e di avere la meglio, nell’83, su una DC ormai esangue e priva di qualunque spinta propulsiva e su un PCI che si preparava a chiudere un’epoca e non si dimostrava all’altezza di aprire la successiva, come si è visto poi con il sostanziale fallimento sia della segreteria Natta sia del tentativo saggio, ma contrastato con inusitata miopia dall’ala più subdola e conservatrice del partito, di Occhetto di imprimere una svolta a quella storia.
Il compagno Pecchioli, in poche parole, in quegli anni rimase ostaggio di un togliattismo anacronistico, completamente inadatto a comprendere i repentini mutamenti di una società del benessere nella quale non bastava più soltanto il pane, in quanto i giovani chiedevano anche le rose, e della sua incapacità anche solo di concepire una qualunque svolta azionista.
E così, da quarant’anni, soffriamo a causa della cesura storica fra la sinistra e i movimenti, avendo la prima accantonato l’idea di includere, aprirsi e sforzarsi di cogliere gli aspetti positivi presenti nella visione dell’altro e i secondi ostinandosi a non prendere atto che la piazza e la manifestazione del dissenso, senza una chiara prospettiva di governo e la capacità di compiere una sintesi, rischiano di essere sterili e fini a se stesse.

Da questa frattura sono scaturiti solo disastri: il già menzionato craxismo, l’esplosione del debito pubblico, la deriva morale che ha condotto a Tangentopoli, la scomparsa dei partiti storici, sfiancati da un sistema che, nel complesso, non reggeva più e da un desiderio di cambiamento che ha prodotto modifiche del sistema frettolose e raffazzonate, il berlusconismo e tutto ciò che esso ha comportato, in termini di modifica del paradigma sociale e comunicativo, di personalizzazione della politica e, quel che è peggio, di progressiva berlusconizzazione dei suoi avversari, agevolata, va detto, anche dalla barbarie liberista durata oltre un trentennio e dalla quale solamente adesso stiamo maturando l’idea di doverci emancipare.
In questa biografia collettiva, pertanto, c’è molto più degli errori personali di un uomo che, in fondo, ha sbagliato sempre in buona fede, nel tentativo di salvare e preservare la sua ragione di vita e di opporsi a un degrado dei costumi che il suo rigore morale e la sua tempra di sabaudo forgiato sui monti della Resistenza non gli consentivano di accettare.
Il dramma è che gli eredi di Peccholi, senza possederne né la statura né l’umanità, hanno elevato i suoi evidenti sbagli a virtù e se ne sono fatti vanto, riuscendo nell’impresa di non comprendere il desiderio di novità, di pulizia e, in particolare, di una sorta di lotta di classe internazionale contro le ingiustizie di una globalizzazione sregolata e, per questo, devastante che hanno animato intere generazioni, oggi sfiduciate e perdute alla causa della battaglia politica e sindacale.
Viviamo da quasi quarant’anni in un eterno ’77, come se gli errori di allora non ci avessero insegnato nulla e come se nemmeno questo mondo multipolare e senza padroni riuscisse a risvegliare in noi il desiderio di spalancare porte e finestre e di provare a osservare il mondo con gli occhi di coloro che oggi aversiamo e teniamo costantemente ai margini.

Manca alla sinistra italiana una sana cultura dell’inclusione, una sana cultura morotea, tipica di quella sinistra di base cattolico-democratica che fu uno dei motori più forti dello spirito costituente di cui è innervata la nostra Carta.
La sfida azionista di Occhetto fu proprio il generoso sforzo di convogliare le culture cardine della nostra tradizione democratica in un progetto di governo e in una visione del mondo liberale, nel senso bobbiano e gobettiano del termine, riallacciando il filo con le speranze e le prospettive che erano state alla base della conquista dell’unità d’Italia, del pensiero mazziniano e della nobile esperienza resistenziale.
Troppo per un soldato che, pur avendo aderito alla svolta, tutto sommato, fino all’ultimo giorno ha combattuto con dignità e convinzione la propria onesta lotta in difesa di un mondo che ormai non c’era più e che, sinceramente, non ci sentiamo nemmeno di rimpiangere.


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