Di Pino Salerno
Il dato politico più rilevante della Direzione del Pd di lunedì 10 ottobre è l’abbandono della minoranza e il voto unanime della relazione del segretario e premier Matteo Renzi. Nihil sub sole novi, come sa bene il segretario del Pd, che certamente avrà letto quel passo biblico. L’unanimità: bella parola quando unisce posizioni contrarie e contrastanti ed è il frutto responsabile di una sintesi. Pessima parola quando invece afferma, sempre e di nuovo, il dominio della maggioranza, e del capo sulla sua stessa maggioranza. Eppure, si discuteva di questioni rilevanti non per il Pd, ma per il Paese, come un cambio nella Costituzione e nelle istituzioni rappresentative, ovvero un cambio nella definizione e legittimazione costituzionale dei poteri democratici. Peccato per il più grande partito italiano aver perso l’occasione di dibattere il punto centrale dell’epoca moderna: come si adatta il potere politico alle sollecitazioni dei poteri ad esso esterni. La questione è gigantesca e meriterebbe una classe politica differente. Così, purtroppo, non è.
La Direzione del Pd, un rito stanco che serve al capo come un simulacro della democrazia
Ne abbiamo viste parecchie di Direzioni nazionali del Partito democratico in epoca renziana. E tutte le volte ci siamo chiesti, alla fine del dibattito, cosa fosse accaduto di nuovo, di veramente diverso rispetto al dibattito anticipato sui mezzi di informazione. E tutte le volte abbiamo dovuto constatare che in Direzione Pd non accade nulla, di politicamente nuovo e rilevante, s’intende. La relazione del segretario dura il tempo necessario per confermare soprattutto la linea del governo del Paese e del governo del partito. Il dibattito si apre agli interventi della minoranza che pretende un diritto di cittadinanza “attiva”, per così dire, mentre esponenti più o meno di primo piano della maggioranza smontano le tesi della minoranza. Una minoranza spesso impotente ha cercato nel corso di questi quasi tre anni renziani di introdurre nel partito elementi anche forti e importanti, come quando ha denunciato la tendenziale fine del partito di massa con la chiusura dei circoli e la trasformazione in partito degli eletti, oppure quando ha proposto strade sensibilmente diverse per le riforme, che per effetto dei voti di fiducia è stata poi costretta a votare. Lunedì sera però la Direzione era riunita per definire un percorso che avrebbe potuto portare a sintesi e unità le posizioni ormai nettamente divaricate dopo le esternazioni sulla stampa di Bersani, Speranza, Cuperlo e la replica televisiva dello stesso Renzi. Così non è stato. Come tutte le altre volte, la Direzione di lunedì 10 ottobre si è chiusa con il voto unanime dei presenti sulla relazione del segretario, dopo l’uscita dei membri di minoranza. Strano modo di considerare la democrazia nel Pd renziano: si parla, si dibatte, si replica ma poi si vota nell’assenza dell’altra parte. E dunque è come se l’assise democratica più elevata del partito si fosse perduta nell’insignificanza. Perché celebrare una Direzione se poi si vota una relazione con una unanimità escludente, e la vita prosegue come se nulla fosse davvero accaduto? Dove e come si forma la volontà democratica di un partito democratico? Così, invece, è la celebrazione del partito monocratico, governato da un solo uomo, neppure da quell’oligarchia “democratica” di cui ha vagheggiato Scalfari riferendosi al gruppo dirigente. Ma si sa, un partito monocratico non possiede un gruppo dirigente, solo fedeli. Da quel che abbiamo capito seguendo la Direzione di lunedì 10 ottobre, questa è la natura del partito renziano, dopo la mutazione politica e antropologica che egli ha impresso nel corso di questi anni, colpevolmente agevolato da eminenti personalità provenienti dai Ds e dai popolari. Il partito di Renzi è ormai questo, frutto di una deriva autocratica e monocratica, in cui prevale l’ideologia Schmittiana dell’amico-nemico, e in cui il gruppo dirigente, che si forma nel conflitto e nella battaglia politica, viene invece sostituito da yesmen e yeswomen.
La Direzione di lunedì: l’offerta di una commissione di studio e valutazione per la riforma dell’Italicum
Nel merito delle questioni, Renzi ha finto di offrire alla minoranza una sorta di patto: cambiare la legge elettorale “in tempi certi”, subito dopo il voto sul referendum costituzionale, per “smontare l’alibi” di chi vuole votare No alla riforma in nome del ‘combinato disposto’ con la legge elettorale. Ma senza “bloccare il Paese in nome dell’unità del Pd”. Il premier accoglie la proposta della minoranza per l’elezione dei senatori e nell’Italicum rimette in discussione ballottaggio, premio alla lista e listini bloccati. E affida fin d’ora a una delegazione Dem, con dentro la minoranza, il compito di vedere “le carte” degli altri partiti. La sinistra del partito coglie il “passo avanti” ma dice che non basta a ritirare il No al referendum.
“Se non c’è una proposta vera entro il 4 dicembre, voto No e mi dimetto dalla Camera”, annuncia Gianni Cuperlo. Renzi arriva in direzione deciso a smascherare il dibattito “autoreferenziale” e il “litigio permanente, a metà tra talk show petulante e telenovela stancante”, che divide il Pd e mina la campagna referendaria. Rivendica di aver portato in direzione la discussione sulla legge elettorale, con approccio di ascolto non chiuso nei “caminetti” e guidato dai “mal di pancia” di “presunti big”. Accusa la minoranza di averlo fatto bersaglio di una “polemica permanente” da quando è segretario e di alzare continuamente la posta: “Ora mi dicono che devo chiedere scusa per la fiducia sull’Italicum? È un’allucinazione, non fu un errore”. Il rischio di tanto impegno speso non a valorizzare i successi del governo (“L’Italia non è più fanalino di coda: ha più diritti e meno tasse”) ma a dividersi sull’Italicum, è finire poi a chiedersi “chi ha ammazzato il Pd, dopo l’Ulivo”. Ma il bene superiore in questo momento, sostiene il premier, è far passare il referendum: “è la mia responsabilita’”. Per questo il segretario-premier mette sul tavolo l’offerta di “una soluzione” e la ricerca di un “punto di accordo”.
Da chi dovrebbe essere formata la commissione
Dunque, il vicesegretario Lorenzo Guerini, i capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda, il presidente Matteo Orfini, più un esponente della minoranza, formeranno una delegazione che “nei prossimi giorni” avvierà un confronto con alleati e avversari, incluso il M5s, i “tre punti fondamentali della legge elettorale”: il ballottaggio sì o no; il premio alla lista o alla coalizione; il modo in cui si scelgono i candidati, “che poi sono tre: collegi, liste bloccate o preferenze”. Renzi rivendica il ballottaggio dell’Italicum come “grande conquista” e il premio alla lista come incarnazione della vocazione maggioritaria del Pd. Ma li mette sul piatto. Se ne potrà discutere in concreto “in tempi certi”: “L’impegno è iscriverlo in discussione nelle commissioni competenti nelle due settimane immediatamente successive al referendum, entro fine anno”. Aggiunge poi che il Pd farà propria la proposta Chiti-Fornaro per l’elezione diretta dei senatori-consiglieri regionali.
La minoranza: “passo avanti apparente, non ci fidiamo e ce ne andiamo”
Ma la minoranza, che con Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani aveva preannunciato il No al referendum già alla vigilia della direzione, ancora non si fida. Il “passo avanti” viene registrato sia da Speranza che da Gianni Cuperlo. Ma non basta, concordano entrambi. “Serve un’iniziativa del Pd e del governo: la proposta di Renzi non è sufficiente”, dice Speranza, che non colloca la minoranza su un Aventino ed è dunque disposto a entrare nella delegazione che tratterà le modifiche, ma tiene per ora fermo il No al referendum. E Cuperlo si spinge oltre: “Se entro il 4 dicembre non c’è un accordo vero sull’Italicum voto No e per coerenza, un minuto dopo, comunicherò le dimissioni alla presidente della Camera”. Dario Franceschini assicura che “a giorni” si può trovare “un’intesa nel Pd”, da trascrivere poi dopo il referendum in Parlamento. E Paolo Gentiloni invita la minoranza a fermarsi a riflettere per non consegnare il Paese “a Grillo e Salvini”. Renzi nella sua replica finale conferma l’apertura e il “massimo impegno” a cambiare. La relazione finale viene approvata all’unanimità, ma la minoranza non partecipa al voto: ad ora, affermano, la loro posizione al referendum resta sul No.
La palese impasse della minoranza: relazione insoddisfacente, commissione farlocca, ma restiamo
Una relazione “totalmente insoddisfacente”, si resta sul No al referendum e se poi “la commissione sulla legge elettorale fa il miracolo, il giorno che lo fa, valuteremo…”. In estrema sintesi è questa la posizione della minoranza Pd al termine della Direzione dem. Il giudizio è che da parte di Matteo Renzi “non c’è stata alcune reale apertura”. “Avevamo chiesto un impegno del Pd e del governo sulla legge elettorale. E la risposta è una commissioncina che sposta ogni decisione concreta a dopo il referendum, dopo il 4 dicembre? Ma andiamo…”, commenta Nico Stumpo. La minoranza, comunque, parteciperà alla commissione. Ma, si riferisce, probabilmente non sarà Roberto Speranza a farne parte. Nihil sub sole novi, appunto.