Anna Stepanovna Politkovskaja, di anni 48, assassinata nell’ascensore del suo palazzo, a Mosca, il 7 ottobre del 2006, lo stesso giorno del compleanno di Putin, da alcuni accusato di essere il vero mandante dell’omicidio. Non ci soffermeremo su questa tesi: non abbiamo prove per suffragarla e non ci piacciono le macchine del fango, così come non siamo in grado di dire se il presidente russo sia in qualche modo collegato all’omicidio dell’ex agente dei servizi segreti Aleksandr Litvinenko, assassinato a Londra con un avvelenamento a base di Polonio un mese dopo l’eliminazione della scomoda cronista della “Novaja Gazeta”.
Preferiamo concentrarci su Anna, sul suo lavoro straordinario, sulle sue denunce strazianti delle barbarie perpetrate in Cecenia, nel corso del blitz al Teatro Dubrovka di Mosca, nella scuola di Beslan, in Ossezia, e ai danni di altri abitanti delle aree più tumultuose del territorio russo, sottoposte da Putin, e questo è provato, ad autentici massacri, talvolta anche con il consenso dei leader locali, asserviti e corrotti. Anna, che cominciò a dedicarsi al giornalismo negli anni gorbačëviani della Perestrojka e della Glasnost’, quando sembrava che l’Unione Sovietica potesse imboccare la via di un rinnovamento proficuo e senza spargimenti di sangue, prima che uno sciocco attentato, probabilmente telecomandato da chi voleva fare fuori l’artefice di questa svolta utile e indolore, desse avvio al decennio peggiore della storia russa, fra miseria, disperazione e una perdita di credibilità internazionale che non poteva che portare, per reazione, all’ascesa di un leader forte e tirannico quale Vladimir Putin, ex capo dell’FSB (il servizio segreto russo, erede del KGB sovietico).
Anna, minacciata più volte sia dai russi che dai ceceni eppure amatissima da entrambe le popolazioni, al punto che fu lei la mediatrice in alcune circostanze drammatiche, quando solo di lei si fidavano i soggetti coinvolti e il suo intervento riuscì, quasi certamente, ad evitare che la tragedia assumesse proporzioni apocalittiche. Anna, la più scomoda fra le giornaliste del giornale più scomodo di tutta la Russia: una testata che dal 2000 in poi ha visto cinque dei propri cronisti assassinati a causa delle loro inchieste sulle malefatte e i metodi barbari di un potere violento e senza scrupoli, capace di compiere ogni sorta di nefandezza in Cecenia e nelle altre zone calde, riportando l’ordine con pratiche tipiche di una logica dello sterminio.
Anna e il suo coraggio di andare sempre e comunque avanti, Anna e i suoi articoli corrosivi, Anna e le sue inchieste che scavavano a fondo e si basavano unicamente su testimonianze in presa diretta, trattandosi di una cronista vecchia maniera che amava consumare le suole delle scarpe e recarsi di persona sui luoghi cui decideva di dedicare le sue inchieste. Anna che viveva la sua vita e scriveva di ciò che vedeva, senza fare sconti a nessuno, senza mai tirarsi indietro, ben sapendo di essere un bersaglio ma non lasciandosi per nulla condizionare da questa condizione di condannata a morte in un Paese nel quale tutti i vertici del potere le erano profondamente ostili.
Lei stessa raccontava: “Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me.
Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie.
Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto. È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci”.
Nei suoi articoli, fino alla fine, hanno sempre trovato voce, comprensione e ascolto le ragioni dei dimenticati, degli oppositori politici, delle madri dei “desaparecidos” del regime putiniano e delle vittime della sua polizia etnica in Cecenia e in altri contesti ignorati, per vigliaccheria, dalla maggior parte dei suoi colleghi.
Ha illuminato a giorno ciò che il potere ha tentato di nascondere, si è opposta all’ipocrisia e alla falsità compiacente del suo stesso mondo, è stata lasciata sola e ha pagato con la vita il prezzo del proprio coraggio. Oggi, tuttavia, è ricordata come un simbolo di resistenza morale al putinismo e a tutto ciò che esso rappresenta, nel bene e soprattutto nel male, e per questo, come tutti i veri martiri della libertà d’informazione, siamo certi che non morirà mai e che il suo stile, il suo rigore e il suo desiderio di conoscere, di scoprire e di raccontare costituirà sempre un modello per quanti si avvicinano a questa professione.
Anna Politkovskaja, dieci anni fa, e la sensazione che il miglior modo per ricordarla, il più concreto e quello che lei avrebbe apprezzato maggiormente, scevro da qualunque retorica, sia impegnarsi sul serio in difesa dei numerosi colleghi minacciati, querelati ingiustamente e imprigionati in ogni angolo del mondo e battersi in nome dei valori che sono stati la sua bandiera, la sua vita e, purtroppo, anche la sua morte.