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Alessandro Bozzo, una storia tutta ancora da scrivere

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La sentenza. Il 14 settembre presso il tribunale ordinario di Cosenza in composizione monocratica, è stata pronunciato il dispositivo di sentenza in merito all’imputato editore Pietro Citrigno dichiarato colpevole del reato di violenza privata contro il giornalista Alessandro Bozzo. Un processo che sarebbe dovuto iniziare già negli ultimi mesi del 2014, in seguito alla consegna da parte della famiglia Bozzo dei diari di Alessandro. Pagine che sono diventate prove documentarie durante il processo, corroborate dalle mail inviate da Alessandro e dalle testimonianze dei colleghi che, udienza dopo udienza, hanno disegnato il quadro della situazione nella redazione di Calabria Ora.

Alessandro Bozzo, giornalista. Ma non solo. Dalle pagine dei diari e dalle parole dei testimoni, emergono con chiarezza i tratti distintivi del giornalista, nella consapevolezza che di lui si debba raccontare la sua vita e la delusione per il mancato riconoscimento di un ruolo e di una competenza professionale, che pure aveva costruito con tanta fatica. Alessandro Bozzo decide di togliersi la vita lasciando increduli e sgomenti la famiglia, i colleghi e gli amici il 15 marzo 2013. La PM della Procura di Cosenza, Maria Francesca Cerchiara nella sua requisitoria riporta quanto emerso dai colleghi giornalisti «di Alessandro – dice – non andavano bene due cose. La prima il suo carattere indipendente, e all’editore non piacevano le persone che ragionavano con la propria testa, ad Alessandro nessuno poteva dire che doveva fare. Non si adeguava. E poi aveva il contratto con l’articolo 1, non andava bene, non poteva essere licenziato. E almeno una volta a settimana ci veniva chiesto di farlo, di mandarlo a casa». Continua «Alessandro non si è piegato, non si poteva piegare. Alessandro amava la vita. Era uno che ragionava con la propria testa. Voleva essere libero, la libertà che ciascuno di noi vorrebbe esercitare». Non è facile sentire parlare in una requisitoria di libertà, di autodeterminazione, eppure è accaduto. Si è parlato della libertà di esercitare la propria professione, di seguire le proprie passioni, di poter scrivere liberamente cercando la verità. Alessandro Bozzo, che per le sue inchieste spesso aveva attirato le attenzioni intimidatorie di politici locali o esponenti di organizzazioni criminali, non si è mai autodefinito come un “giornalista antimafia”, ma solo un giornalista in cerca di verità. Refrattario alle etichette, voleva solo che venisse riconosciuta la sua esperienza e la sua capacità. Per questo non ha mai ceduto, ma come raccontano familiari e colleghi, trovava sempre il modo di lanciare un segnale, una parola, una didascalia. Con il suo stile pungente non ha fatto sconti a nessuno: ha chiesto conto di una targa promessa e ancora non messa dopo un anno dalle passerelle ufficiali in ricordo di una vittima innocente della ’ndrangheta; ha urlato contro chi ha pubblicato le foto di uccellini uccisi dai bracconieri; ha denunciato abusi e appalti truccati. E ha lasciato un grande esempio. Lo ricorda così Alfredo Sprovieri in un post su un social network di qualche giorno fa, che richiama fatti attuali: «Ci portarono in redazione un video scandalo che stava circolando nei telefonini anche se i social non c’erano ancora; lo vedemmo tutti insieme, poi ognuno tornò al proprio posto. Non avremmo mai dato quella notizia e quando Alessandro con una battuta fulminante paragonò la ragazza ad un uccellino, potemmo ricordarci anche il perché: giornalismo significa prendersela con il potente». Questo era il giornalismo per Bozzo: lo ricorda Marianna, sua sorella «è nato giornalista. Era innamorato del suo lavoro. Della verità». Oggi ha un suono ben diverso quello che Alessandro Bozzo scrisse nel 2012 su una vicenda che ha ancora oggi intrecci tra politica e malaffare sulla edilizia sociale: «In un mondo normale se uno fa il proprio dovere nell’interesse dell’azienda per cui lavora e della comunità, fa carriera. E viene trattato con riguardo, rispettato e stimato. Perché ha un’etica professionale e rispetto della legge o semplicemente perché è onesto e non gli piacciono furbetti e prepotenti. Ma Cosenza non è una città normale. Qui se uno fa il proprio dovere lo assegnano ad altro incarico e se si ribella gli incendiano pure la macchina. Per far carriera a Cosenza bisogna essere vigliacchi senza onore o imbroglioni dall’avidità insaziabile, sempre pronti a inginocchiarsi davanti ai prepotenti». Di Alessandro giornalista calabrese si deve avere il dovere di parlare, di raccontare il suo stile e il suo modo di guardare in faccia la realtà calabrese.

Alessandro Bozzo, giornalista precario. «U guagliune s’à da adegua, altro che libertà di autodeterminazione» sono le parole riportate da una testimonianza durante la requisitoria. Alessandro sapeva che quel cambio di contratto era un segnale forte, la perdita di ogni certezza lavorativa, sia in termini di sicurezza che di libertà. La minaccia latente era dietro l’angolo, lo dicono in molti durante il processo. «funzionava così, proposta di trasferimento, cambio di contratto. Poi il licenziamento o sei dentro e accetti o sei fuori». «U mannamu a Catanzaro, magari là non darà fastidio, magari sta più sereno» riportano i testimoni in aula. «Era come avere una scimmia sulla spalla e un cinghiale sullo stomaco, per far capire l’ingerenza, la pressione. Altro che libertà di autodeterminazione». Una situazione insostenibile da più punti di vista. È per questo che la firma di quel contratto da tempo indeterminato a tempo determinato è stato un punto di non ritorno nella vita di Alessandro che quel giorno commentò: «ho firmato una estorsione». Da allora è uno stillicidio, e le pagine del diario non lasciano spazio alle interpretazioni. Lo scrive, con il suo stile, mese dopo mese. «Oggi è un mese da precario», «oggi sono due mesi da precario» e poi ancora «sarò disoccupato. Sono un morto che cammina, giornalisticamente parlando. Non so come riesco a andare avanti, sono arrivato alla conclusione che non merito questo trattamento». «Lo odio (rivolgendosi all’editore) perché pensa che precarizzandoci e riducendo gli stipendi otterrà quello che vuole. Rendere i giornalisti licenziabili facilmente». Il mutuo da pagare, la famiglia di mandare avanti, la fatica di una quotidianità precaria che obbliga a mettere da parte se stessi. Alessandro lo scriva anche il 1 maggio: «1 maggio festa del lavoro. Non so cosa ci sia da festeggiare oggi. Dovrebbero chiamarla festa dei precari, e dei disoccupati. E’ il primo anniversario del precariato», ricorda che da un mese è precario contro la sua volontà. «Il termine precario – continua la Pm –  non piaceva ad Alessandro, non lo accettava. Alessandro aveva la schiena dritta. Era stato relegato in uno scantinato. Insieme ad altri che diventano bravissimi giornalisti. Sono stati umiliati, ce lo dicono i colleghi». Tutto questo non può non imporre una riflessione sul grande tema del precariato, del giornalismo e dell’editoria. E’ per questo che questa sentenza deve anche essere considerata nel panorama generale del lavoro e della dignità del lavoro, della sopravvivenza. «E’ una piccola storia di verità e giustizia, una storia di sud – come ha recentemente affermato la ricercatrice sociale Ludovica Ioppolo durante un intervento pubblico – una storia di libertà di stampa negata, di dignità dei lavoratori violentata». Una sentenza – della quale si aspetta di leggere le motivazioni tra novanta giorni – che però già da ora lancia un segnale forte all’editoria calabrese nello specifico, ma al mondo del giornalismo e del precariato. Un segnale per quel precariato che è potere nelle vite di molti, di chi è costretto a scegliere tra la rinuncia delle proprie libertà e diritti, della dignità e la semplice sopravvivenza quotidiana. Ce lo stanno raccontando i giornalisti, donne e uomini professionisti che sono rimasti, che sono andati via, che non ne hanno più parlato, che sono stati presenti nelle udienze o che camminano intorno al tribunale senza trovare la forza di entrare. Ognuno e ognuna con un carico di sofferenza, di tormenti che nessuno mai potrà giudicare. Perché è un vissuto così intimo e profondo che ogni parola sarebbe fuori posto. Rimane sì, un segnale perché questo potere, può essere scalfito, messo in discussione, può essere nominato e quindi lottato.

Il processo e l’accompagnamento di Santo della Volpe. Libera. Associazioni nomi e numeri contro le mafie nella sua organizzazione territoriale si è interessata della vicenda,  come si legge in una nota del 2014 pubblicata da Libera Cosenza: «Nella situazione attuale, nell’impossibilità di costituirci parte civile, Libera non smetterà di denunciare gli attentati alla libertà che vengono da testate giornalistiche asservite al potere, inchinate alle logiche di bieco mercato legate alle inserzioni pubblicitarie, piuttosto che impegnate a costruire spazi di democrazia e di informazione. La morte di Alessandro Bozzo ci ha messo davanti a una dura realtà costringendoci a pensare a quanto sia difficile nella nostra regione praticare la libertà di stampa e di informazione; quanto sia difficile perseguire un progetto di lavoro sano e degno e, al contempo, sognando una terra libera». Ma dietro questo impegno è oggi un dovere ricordare la cura e l’attenzione che di questa storia ha avuto Santo Della Volpe, nella sua qualità di direttore di Libera Informazione. Prima che la malattia lo portasse via, Santo Della Volpe non ha mai smesso di esserci, di denunciare pubblicamente le mancanze di chi era addetto al controllo, di scrivere e parlare di Alessandro e della situazione calabrese. Aveva anche proposto di intitolare una scuola di giornalismo in Calabria ad Alessandro Bozzo. Ma nessuno ha raccolto quel testimone. Santo della Volpe lo ha ricordato fino alla fine: «Libera Informazione è nata proprio per ricordare che l’informazione o è libera oppure non è informazione. Punto. Noi ci battiamo per questo. Contro tutti i condizionamenti, con battaglie comuni insieme al sindacato contro la precarietà e contro ogni mezzo per colpire l’indipendenza dei giornalisti, compresi i derubricamenti contrattuali “estorsivi”». Di sicuro lui sarebbe stato presente in Tribunale il giorno della sentenza, dove troppe assenze, invece hanno pesato.

Una storia tutta ancora da scrivere. Una lotta comune, che oggi ha assunto forme diverse e nuove. E’ un primo passo. La storia di un mondo precario quotidiano, il cui potere si traduce nella vita di donne e uomini. La storia di percorsi che vanno avanti, di memoria e di impegno contro i poteri e le sopraffazioni. Aspettando le motivazioni della sentenza, intanto la Procura di Cosenza non ha perso tempo dichiarando che «pur prendendo atto che con la sentenza emessa è stata riconosciuta validità all’impianto accusatorio la procura comunica che avanzerà appello alla sentenza ritenendo assolutamente inadeguata la pena irrogata la pena rispetto alla gravità dei fatti contestati e che proseguiranno le indagini per ulteriori fatti reato emersi nel corso del dibattimento». Facendo così seguito alle richieste del pubblico ministero della Procura di Cosenza, Maria Francesca Cerchiara, che ha chiesto la condanna a quattro anni di carcere per l’imprenditore Citrigno e al termine della sua requisitoria, ha chiesto anche la trasmissione degli atti alla Procura perché durante il processo sono emersi «nuovi elementi e ipotesi di reato di estorsione e violenza privata» esercitate da Citrigno in relazione a «condotte diverse e autonome da questo procedimento e perpetrate nei confronti di Bozzo e di altri quattro giornalisti». Una storia quindi, tutta ancora da scrivere.


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