BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Una pace di cristallo per la Colombia

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La pace si è infine avverata, ma non suona le trombe degli arcangeli e nella pur cattolicissima Colombia neppure le campane delle chiese. Non ostenta la falsa onnipotenza della guerra, non fa parate né proclami. Procede cauta ma decisa. E’ consapevole di non avere più alternative, conosce però anche la propria fragilità. I dubbi e lo spirito di vendetta che continueranno a insidiarla a ogni passo. Vuole tuttavia mettere rapidamente in salvo la vita di tutti, ricondurla a giornate assennate e laboriose. Prendere il più possibile distanza dagli odii che hanno portato ferocia e morte senza limiti, squarciato il ventre dimenticato del paese abbandonandolo agli sciacalli che troppo a lungo l’hanno trattenuto nelle loro fauci e scarnificato senza pietà.

Il grosso dei militari resta per adesso in caserma e il loro umore sotto controllo. Migliaia di guerriglieri delle FARC, 10-12mila, ragazze e ragazzi che conoscono soltanto la vita irregolare e l’ordine militare, vecchi il cui orizzonte non varca il profilo della foresta, dopo mezzo secolo forzano il loro destino per andare a consegnare al governo legittimo di Manuel Santos le armi che molti di essi hanno ereditato dai loro padri. Non cantano, non inneggiano a niente, appaiono per lo più perplessi. Non pochi concittadini li vedono transitare per le strade attorno alla capitale, uscire dalla selva pantanosa del Darien, scendere dalle Cordigliere, risalire il Caguan dal sud-est, attraversare il paese in lungo e in largo senza degnarli di uno sguardo diretto. I cuori sono carichi di rancore. Lutti e sofferenze atroci non riescono a trovare conforto. La guerra civile è la più orribile delle malattie. Guarirne è un’impresa omerica.

Per rendersene conto basta pensare a quanto c’è voluto affinché la Colombia riafferrasse tra le mani il proprio futuro, avvelenato nelle città dall’ottuso egoismo dell’oligarchia e fatto marcire nella selva dalla violenza indiscriminata dell’estremismo guerrigliero. “Pronto, pronto, radio-centro  è in ascolto, fate contatto, fate contatto …”, Plinio Apuleio Mendoza, senatore, diplomatico di carriera e intellettuale spavaldo, compagno di bisboccia di Gabriel Garcia Marquez e punto di riferimento dei periodici tentativi di pace, mi mette così in contatto con la guerriglia delle Farc, dalla sua abitazione al centro di Bogotà. Lo scatolone del suo voluminoso radiotelefono gracchia a lungo, lui lo spegne, riaccende e manovra come un nostromo il timone nel mezzo d’una tempesta.

A un certo punto sentiamo una voce non chiara ma forte:”Hola, hola cumpa… La selva tiene voz…”. Plinio sorride soddisfatto e mi traduce:”E’ lui, è Tiro Fijo… Sta a chissà quante centinaia di chilometri da noi…”. Come spiegarlo oggi che è morto e sepolto appena un istante prima che capisse di essere stato sconfitto, chi sia stato Manuel Marulanda Velez, fondatore e mito d’una guerriglia durata ben oltre mezzo secolo, dinosauro del leninismo, Tiro Fijo perché leggenda vuole che non sbagliasse un solo colpo di fucile. Eravamo nel mezzo degli anni Ottanta del secolo scorso. Ce ne vollero quasi altri venti, prima che Plinio e un pugno d’uomini di buona volontà trovassero un presidente coraggioso come Andrès Pastrana disposto anche a negoziare pur di ottenere la pace.

Milionario educato negli Stati Uniti, prima di diventare sindaco di Bogotà e poi presidente della Colombia, Pastrana faceva il giornalista. Aveva un suo telegiornale. E un’ammirazione sconfinata per il collega della RAI Franco Catucci, che me l’ha fatto conoscere. “Marulanda è un nemico leale, ma le FARC hanno un comando collegiale e gli operativi pesano più degli ideologi, perché sono quelli che sparano”, mi dice Pastrana, ottimista senza illusioni. “Se c’è una possibilità, devo verificarla per salvare vite colombiane.”  Anch’io viaggio allora nel Cagùan a vedere se riesco a intervistare faccia a faccia Tiro Fijo e capirci qualcosa. Quando grazie alla tregua finalmente riesco a raggiungere la guerriglia, però, mi fanno capire che lui sta male, ha una polmonite.

Posso incontrare il suo vice, Raul Reyes, un ex sindacalista comunista passato alla lotta armata. Sebbene venga giù una pioggia sottile ma incessante, parliamo all’aperto, a lungo, ma ben distanti dalle tende mimetizzate del suo stato maggiore, perché malgrado la tregua confessa senza girare intorno alle parole di temere un possibile bombardamento aereo. E a confermare che non fosse una precauzione ingiustificata è stata anni più tardi la sua morte. Reparti speciali dell’esercito colombiano lo hanno ucciso insieme a numerosi suoi compagni con un missile telecomandato, dopo che lo spionaggio li aveva individuati in un accampamento di riposo in territorio ecuadoriano. In nessun momento Reyes mi dice che la pace è vicina. Ripete solo che a sabotarla non sono loro.

Infatti sfuma una volta ancora. Nelle FARC hanno prevalso coloro che non ritengono di poter trarre vantaggi dal ritorno alla vita legale e si nascondono dietro i compagni timorosi di finire trucidati dai sicari dei narcotrafficanti e dall’esercito regolare che spesso li protegge, come era accaduto ai dirigenti che nel 1985 avevano deposto le armi per presentarsi alle elezioni sotto la bandiera dell’ Unione Patriottica. Riprendono attentati dinamitardi, sequestri di persona, scaramucce e colpi di mano.  Le stesse forze armate governative sono protagoniste di soprusi, malaffare e repressioni indiscriminate. Disperata, la maggioranza dei colombiani affida il governo del paese al duro conservatore Alvaro Uribe, che promette di annichilire una volta per tutte la resistenza armata.

Ma nel 2010, dopo altri 8 anni di guerra finanziati in buona misura dagli Stati Uniti, le FARC, che pure hanno subito colpi su colpi, tuttavia resistono e continuano a combattere praticamente sull’intero territorio colombiano. Da ministro chiave del governo Uribe, Juan Manuel Santos si converte nel suo diretto avversario, conquista la Presidenza e convinto che la pace dei cimiteri non serva a nessuno, avvia trattative con la nuova dirigenza delle FARC. Cuba le ospita e anche grazie ai milioni del petrolio che in tanti paesi alimentano la peggiore corruzione, la Norvegia le assiste con l’avallo attivo delle Nazioni Unite e il particolare impegno del Vaticano di papa Francesco. Dopo 260 mila morti, 4 milioni e mezzo di profughi e gli ultimi 4 anni di crepacuore per i rischi d’un ennesimo fallimento, la pace c’è.

La Colombia la vive con qualche sollievo e una certa cupezza. Per rispetto agli innumerevoli lutti, ai dolori sofferti e impossibili da dimenticare da parte di molti. Per un malinteso sentimento di giustizia (Fiat justitia, pereat mundus!? Muoia Sansone con tutti i filistei?!), che in alcuni nasconde il desiderio di vendetta quando non il calcolo politico. Quali di queste due parti esprimano la maggioranza del paese, lo verificherà presto il plebiscito popolare previsto per la ratifica dell’accordo finalmente raggiunto. Sebbene il meccanismo previsto come precondizione alla trattativa non lasci molti margini a un rifiuto (le FARC non avrebbero potuto accettare il disarmo senza una pace certa), i suoi effetti sulla politica colombiana saranno pesanti. La battaglia referendaria è brace sotto la cenere.

La pace stessa è oggi in Colombia l’essenza della politica. L’ex presidente Uribe, la cui famiglia è notoriamente legata agli interessi del latifondo, al punto che il padre viene da tempo apertamente accusato di essere stato tra i fomentatori delle formazioni paramilitari, si gioca la propria carriera nel tentativo disperato di respingere questa pace invocandone “una più giusta”. Santos forse si attendeva maggiori riconoscimenti per aver reso possibile il miracolo di lungimiranza, pazienza e generosità che schiude alla Colombia una prospettiva di maggiore sicurezza e prosperità. La comunità internazionale è impegnata a sostenerla. Consapevole del prodigioso e nondimeno profondo scossone che la pace produce nella vita colombiana, alle sue rassegnate abitudini di ostaggio della violenza.

Sembra quasi che l’uomo si abitui più rapidamente all’aria soffocante della paura che a quella aperta della libertà. L’adrenalina dei combattimenti, l’inconfessabile necrofilia dell’uccidere ed essere uccisi, l’esistenza perennemente appesa a un filo, l’azzardo d’ogni giorno e d’ogni momento dopo decenni e decenni intossicano come e più di quella cocaina diventata nel frattempo un sordido oro bianco nell’economia nazionale e del mondo intero. L’Eros e Thanatos di Freud, la lucida follia nichilista del Kurz di Conrad, Cuore di Tenebra, devono essere passati per la mente di Mario Vargas Llosa, il premio Nobel peruviano che ha attraversato la violenza in tanti suoi romanzi, quando ha voluto confessare che dopo tante perplessità le nobilissime parole di perdono di una vittima dei paramilitari e della guerriglia l’hanno convinto definitivamente a schierarsi tra gli attivi sostenitori della pace colombiana, che è un pezzo di quella di tutti noi.


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