Giù, sempre più giù. La Confindustria è sempre più scettica. Il centro studi degli industriali prevede una crescita del Pil (Prodotto interno lordo) di appena lo 0,7% quest’anno e dello 0,5% nel 2017. Solo la metà delle stime diffuse appena qualche mese fa dal governo. L’esecutivo prevedeva una salita del Pil dell’1,2% nel 2016 e dell’1,4% l’anno prossimo. Poi è arrivata la doccia fredda di una ripresa economica sempre più debole in Italia e tutto è rimesso in discussione. Da tempo il Belpaese viaggia con il “motore ingrippato”, passa da una grave recessione economica a una stagnazione senza vedere mai una vera ripresa. La Confindustria ha parlato di «un quindicennio perduto». Ha fatto drammatiche cifre sull’impoverimento del Paese. Tra il 2000 e il 2015 il Pil è aumentato in Spagna del 23,5%, in Francia del 18,5%, in Germania del 18,2% mentre in Italia è «calato dello 0,5%» e con l’attuale ritmo il gap è destinato a salire «ancora più rapidamente».
L’Italia da vent’anni è in testa a quasi tutti i primati negativi delle democrazie occidentali: è agli ultimi posti nella crescita economica, nell’occupazione (in particolare quella giovanile), nell’innovazione tecnologica, nelle espansioni delle grandi imprese multinazionali. È tra le prime in classifica, ma sempre per record negativi, in tanti altri campi: la decrescita demografica, la lentezza della giustizia, la corruzione pubblica, l’invadenza della burocrazia, il peso delle tasse, le disuguaglianze sociali.
Da tempo è aperta la caccia al virus colpevole del degrado e della medicina per tornare in salute. Tuttavia ogni sforzo per ora è stato vano. Per Fadi Hassan, 35 anni, economista italiano nato da genitori siriani, la malattia dell’Italia è ancora più antica: c’è da recuperare il «nostro ventennio perduto». Secondo il professore di Macroeconomia al Trinity College di Dublino e ricercatore alla London School of Economics la globalizzazione dell’economia e la rivoluzione delle nuove tecnologie hanno fatto a pezzi il modello italiano delle piccole e medie imprese a conduzione famigliare. Così “è precipitata” la produttività. Al ‘Corriere della Sera’ ha fatto le cifre dell’impoverimento della Penisola: «Sono vent’anni che l’Italia cresce meno del resto dell’Europa. A metà degli anni ’90 il Pil pro capite dell’Italia, cioè la ricchezza prodotta divisa per gli abitanti, era superiore del 3% alla media della zona euro. Adesso è inferiore del 13%».
Va controcorrente: la responsabilità della regressione non è tanto della classe politica della Seconda Repubblica (“rischia di essere un alibi”), ma degli imprenditori italiani perché “manca” la voglia di “fare” e di “rischiare”. Dà la ricetta per recuperare il tempo perduto ed evitare il peggio: investire per modernizzare il sistema produttivo e le infrastrutture. Si rivolge alle aziende: «Gli imprenditori sono il motore dell’economia, dovrebbero investire nella loro impresa piuttosto che sui mercati finanziari, lasciare l’azienda non per forza ai figli, ma anche a manager esterni». Ma si rivolge anche a Matteo Renzi: il governo deve lanciare «un piano vero d’investimenti pubblici su infrastrutture, scuole, sulla messa in sicurezza delle case, sull’energia verde». E il deficit pubblico? L’enorme debito pubblico sul quale Bruxelles richiama costantemente l’esecutivo italiano? Invita il presidente del Consiglio ad avere coraggio, a dimostrare la propria leadership: «Su questo punto arrivi allo strappo con l’Unione Europea. Ne vale la pena, più che sugli 80 euro» (concessi ai lavoratori con i salari più bassi n.d.r.).
L’analisi del presidente del Consiglio e segretario del Pd solo in parte coincide con quella del professor Hassan. Da tempo ha puntato il dito contro l’”immobilismo politico” della Seconda Repubblica, responsabile del degrado della società, dell’economia e del sistema istituzionale italiano. Giusto un anno fa ha detto al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini: «In questi 20 anni l’Italia ha trasformato la Seconda Repubblica in una rissa permanente ideologica sul berlusconismo, ha smarrito il bene comune. E mentre il mondo correva, è rimasta ferma in discussioni sterili interne». Più precisamente: «Il berlusconismo e per certi versi anche l’antiberlusconismo hanno messo il tasto ‘pausa’ al dibattito italiano e abbiamo perso occasioni clamorose». Così «ora il nostro compito è di rimetterci a correre. È come se le riforme siano un corso accelerato per rimettere l’Italia in pari».
Carlo De Benedetti pochi mesi fa ha parlato del clamoroso fallimento della classe dirigente italiana, della quale pure è una potente espressione. Il presidente del gruppo Espresso-Repubblica, già proprietario della prestigiosa e poi defunta Olivetti, ha detto al ‘Corriere della sera’: il fallimento «non è certo colpa di Renzi; ma Renzi, come me, fa parte dell’elite. E la gente se la prende con lui dopo due anni di governo».
Il presidente del Consiglio e segretario del Pd ha giocato e gioca la carta delle “riforme strutturali” per risalire la china. In due anni e mezzo di governo ha approvato molte “riforme radicali” per rendere competitivo e modernizzare il Paese: mercato del lavoro, scuola, pubblica amministrazione, fisco, unioni civili, revisione della Costituzione, legge elettorale per le politiche. Ha annunciato anche un piano d’investimenti per ricostruire i paesi del centro Italia devastati dal terremoto del 24 agosto e per mettere in sicurezza il territorio nazionale. Tuttavia si vedono pochi risultati e il presidente del Consiglio è fortemente contestato sia dalle opposizioni e sia dalle minoranze interne del Pd.
La partita di Renzi è doppia: in Italia e in Europa. A Bruxelles la battaglia contro i rigoristi finanziari della Ue di matrice tedesca è in pieno svolgimento. Il “rottamatore” di Firenze si è incontrato con il presidente francese Hollande e con il premier greco Tsipras proprio con l’obiettivo di mettere da parte l’austerità e far ripartire gli investimenti pubblici, in modo da sostenere la debole ripresa economica. C’è da disinnescare la mina della disoccupazione, delle paure del ceto medio per il futuro, cavalcate da tante forze populiste in Europa.
Senza un grande piano d’investimenti pubblici in Europa, le tensioni, moltiplicate dalle centinaia di migliaia di immigrati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, potrebbero salire ancora fino a provocare la fine dell’euro e dell’Unione europea. Tuttavia ancora non si vede niente, non c’è sta una forte iniziativa unitaria nemmeno dopo l’addio della Gran Bretagna alla Ue, il segno che tutto potrebbe facilmente franare. Intanto l’Italia continua ad essere il fanalino di coda nelle classifiche internazionali.
La Grande recessione economica internazionale, scoppiata nel 2008, ha colpito tutti i Paesi del globo, ma in Italia ha avuto effetti disastrosi: molte fabbriche hanno chiuso i battenti ed è stato cancellato oltre il 20% della produzione industriale. La classe dirigente della Seconda Repubblica, politica ed imprenditoriale, non è stata capace di dare una risposta alla globalizzazione, alla micidiale concorrenza delle “tigri asiatiche” (come la Cina, l’India e la Corea del Sud) e delle nazioni dell’est europeo, un tempo dominate dall’Unione Sovietica (lì il Pil corre a ritmi vertiginosi, come accade in Polonia). Questi Paesi prima hanno occupato gli spazi delle produzioni più commerciali, poi anche quelli a maggiore contenuto tecnologico. Ora si aspetta la risposta dell’Italia che non potrà essere limitata alla sola legge di Bilancio del 2017. Servirebbe un grande progetto di sviluppo pluriennale, una grande visione italiana ed europea per evitare il naufragio.