La storia di Tiziana, che si è tolta la vita per il “discredito” (parola desueta ma opportunamente usata da Enrico Mentana al Tg de La7) generato dall’aver girato una serie di video a contenuto sessuale, così come l’hanno riferita i mezzi d’informazione, racconta molto di questo paese.
Racconta dell’assenza, o comunque di una sua presenza molto minoritaria, di una cultura libertaria, espressa nei momenti di massimo splendore da Marco Pannella, che non a caso ha avuto più consensi da morto che da vivo.
Una cultura che prova a promuovere la libertà di ogni persona di gestire i propri sentimenti e il proprio corpo in autonomia, con l’unico limite di non ledere i diritti di altre persone. Una cultura che si oppone al concetto di “colpa”, di “sbagliato”, di “immorale” e di “sporco”.
Se quella cultura esistesse, in questo Talebaniland mediterraneo nel quale sono state esaltate le ordinanze anti-burkini prese ad agosto dai sindaci-bagnini delle spiagge francesi, una serie di video hard che hanno per protagonista una donna maggiorenne e per comprimari degli uomini altrettanto maggiorenni, passerebbe inosservata. Semplicemente perché non c’è niente di male. O, evitando di scomodare categorie morali, perché non c’è niente di illegale.
Il suicidio di Tiziana racconta invece della prevalenza di quelle categorie morali: bene, male, giusto, errato. Di quanto poi siano radicati i ruoli di genere, che prevedono la complementarietà della donna all’uomo: la quale, come complemento dell’uomo, deve procreare o, come minimo, deve rispettare il dogma che “non c’è sesso senza amore” (cit.).
Altrimenti è una “troia”. Soprattutto se gira una serie di video per, come scrivono alcuni ben informati commentatori, cornificare il compagno (ovviamente, a parti invertite, il protagonista verrebbe esaltato come stallone dalle grandi prestazioni).
Racconta (ma il telefono aperto di Radio radicale ce lo aveva descritto già nel secolo scorso) di come il dileggio, l’insulto, il torpiloquio siano considerati da tanti un gesto, se non rivoluzionario, almeno liberatorio. Ieri telefonavano a quella radio uomini: un rutto, una bestemmia, un’offesa sessista e riattaccavano. Oggi, commentano online uomini: “troia”, “puttana”, invio. Segue l’estasi dei like.
Racconta di quanto, ai tempi di WhatsApp, il concetto di amicizia soccomba alla “rota” della condivisione: i video di Tiziana, così come lo stupro di una ragazza nei bagni di una discoteca di Rimini, ripreso dalle amiche barcollanti arrampicate sulla tazza del cesso accanto, vanno condivisi. Sennò non servono a niente.
Racconta di un paese nel quale è facile fare rumore sui social ma se c’è da metterci la faccia in una piazza e i piedi sul suo asfalto, come a Melito, prevale il silenzio di un luogo vuoto.
Racconta di un mondo nel quale, dopo aver dato della “puttana” anche a una salma, basta chiedere scusa per diventare eroi. Di un mondo dove alla gogna segue la contro-gogna, cui partecipano non pochi di quelli che hanno preso attivamente parte alla fase precedente.
Racconta che il cyberbullismo esiste, soprattutto a scuola, ma rischia di oscurare un bullismo antico e del tutto off-line: quello dello sguardo cattivo, bieco, maligno, malevolo, colpevolizzante; del saluto tolto per sempre; dell’isolamento sul posto di lavoro, nel quartiere, nei negozi, nei bar o nelle piazze che frequenti; e non di rado – questo non era il caso di Tiziana, ma non l’ha salvata – lo stigma nel circolo intimo degli affetti e delle relazioni familiari.
A nulla vale cercare di cambiare città, mutare nome e cognome, rivendicare il diritto all’oblio. Il “discredito” t’insegue: modernamente, online; anticamente, offline.
Racconta infine che l’auto-assolutoria frase “Se l’è andata a cercare” è un articolo non scritto della Costituzione di questo paese.