“Roar – Un mercoledì da Leone” una striscia serale quotidiana che Rai3, dal 31 agosto ha proposto ai suoi telespettatori per raccontare la 73ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Un “ruggito” ironico affidato ai disturbi d’autore di Paolo Villaggio e alla dinamica e colta conduzione del giornalista Edoardo Camurri, che abbiamo intervistato.
Come’è nata l’idea di raccontare con un «Roar» la Mostra del cinema di Venezia?
“È nata insieme ai miei compagni d’avventura, Michele De Mieri e Riccardo Mazzon, con i quali avevamo condiviso il «Viaggio nell’Italia del giro», proponendo una serie di tappe culturali del nostro Paese; credo sia importante poter lavorare con una buona squadra collaudata e ristretta, proprio perché si crea inevitabilmente un’intesa profonda. Ci chiesero di immaginare una striscia quotidiana per Rai3 proprio per raccontare la Mostra del cinema di Venezia e, la prima cosa che ci venne in mente, fu quella di rompere la liturgia tradizionale del racconto. Spesso il cinema, così i libri, sono proposti al pubblico attraverso pacate ed esaustive interviste ad attori, registi e autori, i quali, diligentemente, illustrano il loro lavoro e il loro pensiero. Il pubblico si è abituato a quella formula. Abbiamo dunque pensato, per questo nuovo programma, di rovesciare la proposta narrativa. La storia della Mostra del cinema di Venezia, risalente al 1932, è stata infatti proposta al pubblico grazie al meraviglioso patrimonio contenuto nelle Teche della Rai; siamo riusciti a trovare perle preziose da utilizzare e su queste formulare le domande agli ospiti in studio. Abbiamo pensato agli «Esercizi di stile» di Raymond Queneau. Dunque, raccontare all’Italia di oggi la rassegna cinematografica del passato grazie all’insegnamento di Queneau – che in 99 modi diversi e fantasiosi seppe raccontare una storia apparentemente banale, ma con accattivanti varianti stilistiche – provando ad inserire quel racconto attraverso lo stile del quiz, ignorandone la ‘liturgia’ tipica, quella del telequiz. Da qui è nato Roar. Di volta in volta sono intervenuti ospiti diversi, attori, registi, per presentare i loro film e ai quali abbiamo chiesto di rispondere ad alcune domande raccontando così la storia della Biennale e i personaggi che l’hanno resa grande. Chi poi rispondeva esattamente vinceva del tempo utile (in secondi) per poter presentare la sua opera ai telespettatori. Solo alla fine della puntata si arrivava a fare ciò che sarebbe accaduto all’inizio di qualsiasi altro programma, la pubblicità al proprio prodotto. Gli intermezzi e i rumori di Paolo Villaggio (il disturbatore confinato dentro ad un televisore, ndr) e le immagini dei film realizzati dagli ospiti in studio, hanno fatto il resto”.
Noi conosciamo la Biennale nel racconto dei critici (ospiti anche nel vostro programma) dei gossip o dalle immagini rubate al red carpet. Lei quale idea si è fatto della kermesse cinematografica?
“La qualità dei film a mio avviso era davvero ottima. La cosa che più mi ha colpito in quindici giorni di lavoro è l’aver scoperto Venezia (Lido) una città ideale rinascimentale attraversata da intellettuali, scrittori, registi, attori, giunti da tutto il mondo: uno «strano regno di utopia» in cui le persone si trovano per vedere i film e per immergersi in una caverna platonica, per entrarci e per poi uscirne. Per essere meno poetici, ho scoperto un luogo davvero unico e prezioso che ti permette di poter incontrare persone interessanti con le quali poter discorrere in ogni angolo dell’Isola”.
Qual è stato il film, a suo avviso, più interessante in rassegna?
“In modo politicamente corretto parlo di un film fuori concorso che s’intitola Austerlitz, un film-documentario che racconta l’estenuante ‘giro turistico’ sui campi di sterminio di Austerlitz; una narrazione in bianco e nero che il regista ucraino Sergei Loznitsa ha attuato con inquadrature fisse. Nel film una moltitudine di turisti indomiti si riversa tra i ruderi deturpati nel campo di Sachsenhausen, uno dei primi campi costruiti in Germania. I turisti sono ripresi intenti a passeggiare, scattandosi selfie davanti a luoghi che per altri esseri umani hanno rappresentato tragedia e morte, spesso con indosso magliette improponibili e con scritte tipo ‘Jurassic Park’, ingurgitando lattine e patate fritte. Il campo di concentramento è divenuto in quel film una mera attrazione turistica. Il problema è che quei turisti siamo noi, una civiltà aliena che non si rende conto di cosa è successo nel passato e che si presenta con tutta la sua inadeguatezza. Un film capolavoro”.
Cos’è per lei il Servizio pubblico?
“Il principio è molto semplice: rispettare l’intelligenza del telespettatore. Credo che sia anche il modo per stare al mondo. Dunque cercare di offrire, sempre, il meglio di ciò che si è in grado di poter dare. Con Roar l’obiettivo che ci eravamo dati non era tanto quello didattico, ma quello di cercare di accendere almeno la curiosità del telespettatore. Ci siamo detti che se fossimo riusciti a fare questo, avremmo vinto. L’utilizzo di parole inaspettate, i collegamenti interdisciplinari, l’utilizzo di materiali d’archivio, ricordare come comunicava il servizio pubblico di allora, sono stati, credo, gli ingredienti vincenti del nostro programma”.