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Facebook e le foto. Non può decidere un algoritmo ottuso

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I social, si sa, rappresentano uno strumento straordinario, ma vanno sicuramente presi con le molle. Lo stesso McLuhan, negli anni 60, ammoniva nel famoso saggio sulla Galassia Gutenbeg: “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre”. Non bastassero le manipolazioni, i troll e gli haters (odiatori) ora ci si mettono anche gli algoritmi di Facebook che applicano regole senza cervello, essendo robot. Così hanno cancellato una fotografia storica, simbolo universale dell’orrore della guerra, perché spinti dalle proteste di qualche imbecille che non conosce la storia. Intanto vorrei proprio conoscere chi ha contestato quell’immagine (dando ragione a Umberto Eco), poi inviterei Zuckenberg a rivedere il sistema di controllo.

La foto è quella del vietnamita Nic Ut scattata nel 1972 a Kim Phuc, bambina allora di nove anni che, nuda, grida e piange dal dolore perché colpita dal terribile napalm lanciato dalle truppe Usa. Facebook la fa sparire, cancellandola d’ufficio perché andrebbe contro le «policy» sulla pedopornografia. Bisognerebbe parlare più esattamente di censura, vista la grande importanza storica di una fotografia che rimane come un pugno nella memoria di tutti e che peraltro ora, dopo i sospetti di un utilizzo di gas simili al napalm in Siria, dovrebbe tornare a farci riflettere per le possibili altre vittime come Phuc.

L’ondata massiccia di proteste ha portato Facebook a fare un passo indietro, facendo ricomparire l’ immagine iconica in tutti i profili che l’ avevano condivisa. “In questo caso, riconosciamo la storia e l’ importanza globale di questa immagine”, hanno spiegato.  Ma resta un caso preoccupante, da manuale. “Non siamo una media company” ha detto di recente a Roma il fondatore, Mark Zuckerberg. Ma non è esatto perché ormai  Facebook è preso come una fonte di informazioni, addirittura un riferimento importante, nonostante le bufale. Per cui i link dei motori di ricerca e i contenuti postati sui social network non possono non ricadere sotto le conquiste della libertà di espressione. Al diritto all’ oblio e alle policy si contrappone il dovere di ricordare e sapere. Non può decidere per tutti noi un “robottino” ottuso, ma ci vorrebbe uno staff umano in grado di sapere e di capire. Il discorso è “articolato e complesso”, come diceva un mio vecchio direttore, perché alla fine non vince la ragione ma il numero di contestazioni anche, per esempio, per bloccare un avversario politico, alla faccia della democrazia. Stavolta ha vinto la storia, ma la prossima volta?


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