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Siria. Arresti, rapimenti e omicidi di reporter… Lo stato di “salute” della libertà di stampa

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La Siria non ha mai avuto una stampa libera. Gli organi di informazione sono sempre stati controllati dal regime siriano attraverso la longa mano del Mukhabarat, il temuto servizio segreto di Assad. I giornalisti scomodi venivano arrestati e passati per processi sommari. Con la rivolta scoppiata nel 2011, trasformatasi in guerra civile, la Siria è diventata il Paese più letale al mondo per i giornalisti. Dall’inizio del conflitto a oggi sono morti in Siria 57 reporter (tra cui otto stranieri), 131 citizen journalist e 5 media assistant. L’informazione ha pagato la copertura della guerra civile siriana con 193 morti in tutto, larga parte dei quali locali.

I primi citizen journalist sono comparsi subito dopo l’inizio della rivolta al regime degli Assad sulla spinta di informare il mondo sui diversi aspetti della guerra, subito affiancati anche dai giornalisti stranieri. Ben presto, però, il clima interno si è talmente deteriorato che le condizioni di sicurezza per i reporter sono diventate totalmente insufficienti. Uno dei fattori è la presenza di molti soggetti armati, che rispecchiano la frastagliata composizione etnica siriana, suddivisi in gruppi leali agli Assad e gruppi di opposizione, ma spesso anche in lotta all’interno della stessa fazione. Il clima di caos ha decuplicato intimidazioni, arresti, rapimenti e omicidi di reporter.

Al fianco degli Assad, di fede alawita e quindi sciiti, si sono schierate le nazioni a maggioranza sciita (Iran e Iraq), insieme alla Russia, mentre il fronte dei ribelli è sostenuto dalla Turchia, dai Paesi sunniti del Golfo (Arabia Saudita e Qatar) e da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. C’è poi lo Stato Islamico, in lotta contro tutti e contrastato dalle Forze siriane democratiche, una coalizione tra Curdi, Arabi, Assiri, Armeni e Turkmeni nata nel 2015 proprio in chiave anti Isis. Una guerra con dentro tante altre guerre che ha portato a una totale instabilità nel Paese e che ha trasformato quello siriano in uno dei conflitti più sanguinosi degli ultimi anni. Perché se è alto il tributo pagato dal mondo dell’informazione, ancora più alto è quello pagato dalla popolazione civile. I morti secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, una ong con sede a Londra, sono oltre 260mila fino a dicembre 2015, un terzo civili e due terzi combattenti; i rifugiati, espatriati soprattutto in Libano e Turchia, sono oltre quattro milioni stando alle stime dell’Unhcr a cui si aggiungono quasi otto milioni di sfollati all’interno del Paese.

Le prospettive di pace sono ancora molto lontane e, a differenza dell’intensa attività militare sul campo, l’azione diplomatica stenta a procedere e a darsi obiettivi certi, giocando troppo spesso una partita che nasconde altre tensioni geopolitiche.

Manca soprattutto un’iniziativa politica dell’Europa, che per vicinanza geografica è tra quelli che risentono maggiormente delle conseguenze del conflitto (così come della guerra in Libia). Un’Europa che appare sempre più ripiegata su se stessa, stretta dalla morsa della crisi, litigiosa e divisa al proprio interno.


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