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Rifugiati lgbt alla ricerca di sicurezza in Medio Oriente

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I migranti forzati gay o transgender affrontano un alto rischio di violenza e abusi, spesso target di gruppi criminali e estremisti

Di Matthew Saltmarsh, per Unhcr

Traduzione a cura di Associazione Carta di Roma (articolo originale qui)

Beirut, Libano – Come donna transgender Nadia (nome di fantasia, ndr) ha lottato a lungo nel tentativo di essere accettata nel suo paese d’origine, l’Iraq, dove anni di abuso sono culminati nel suo rapimento da parte di una milizia di estremisti che colpisce i transessuali.

«Ci torturavano e picchiavano duramente», afferma, ricordando come ad alcuni dei suoi compagni di prigionia gli orifizi fossero stati chiusi con della colla. Parecchi sono stati uccisi.

Dopo un tormentoso viaggio attraverso il Medio Oriente in cerca di sicurezza, Nadia è ora sotto la protezione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Libano ed è pronta per un nuovo inizio. «Ho detto per sempre addio all’Iraq e fa male», racconta.

Un passato che non si può dimenticare

Cresciuta come un ragazzo da una madre fredda e da un padre violento, Nadia a 23 anni si identifica come una donna. Il suo viaggio l’ha condotta dal conflitto della Baghdad del dopo-guerra al Kurdistan, poi in Iran e ora in Libano. Ma non può seppellire la confusione, i tradimenti e gli abusi del suo passato. «Pensavo di essere l’unica così sul pianeta», dice, parlando della sua identità di genere. «Mi chiedevo perché fossi così. Era disgustoso, davvero disgustoso», descrive così le reazioni intorno a lei.

Per i rifugiati i pericoli sono spesso amplificati, secondo le testimonianze raccolte da Unhcr e da i suoi partner. I rifugiati lgbt affrontano un accresciuto rischio di molestie, arresto, rapimento, tortura, stupro e persino omicidio. Alcuni, come Nadia, sono obiettivo di estremisti e bande di criminali. Esistono inoltre le preoccupazioni quotidiane, come trovare un lavoro o un riparo, già dure abbastanza per gli altri rifugiati.

In Libano, tra tolleranza e discriminazione

Il Libano è considerato più tollerante verso i diversi orientamenti sessuali e le identità di genere rispetto alla maggior parte dei paesi vicini. Nonostante ciò il suo codice penale proibisce relazioni sessuali “in contraddizioni con le leggi naturali” e ciò può portare a un procedimento giudiziario.

Non  vi sono dati sul numero di persone lgbt che hanno bisogno di assistenza, ma Mosaic, organizzazione partner Unhcr che lavora con i gruppi emarginati in Libano e in altre aeree della regione, sostiene di averne raggiunti coi suoi servizi 810 quest’anno. Un numero che a malapena rivela la superficie.

«Molto dipende da come arrivano e dall’aver già ricevuto o meno supporto – spiega Charnel Mayday, fondatore di Mosaic – Sono molti i fattori che definiscono la sicurezza. Si trovano in una casa sicura? Sono debitamente registrati e protetti? Essere un rifugiato lgbt può rappresentare un doppio stigma».

Migranti forzati lgbt, una categoria che necessita di tutele specifiche

Da parte sua Unhcr ha recentemente presentato il più completo e ampio strumento formativo su questo tema per gli operatori e le organizzazioni umanitarie che lavorano con i migranti forzati lgbt. Ha anche fornito una panoramica sui progressi fatti nella loro protezione.

In Libano, operatori sociali specializzati offrono supporto psicologico e riferimenti per l’assistenza medica – soprattutto per le terapie post-traumatiche. Ulteriore assistenza include rifugi, supporto per la salute mentale, assistenza legale ed economica in caso di emergenza. Quando necessario i rifugiati sono trasferiti. Unhcr lavora, inoltre, a stretto contatto con Mosaic, Abaad (Centro di ricerca per l’uguaglianza di genere) e altre organizzazioni non governative nazionali e internazionali che offrono aiuto individuale e di gruppo ai rifugiati lgbt. Unhcr e suoi partner hanno formato la polizia per far sì che comprendesse i bisogni della comunità lgbt e recentemente hanno introdotto l’uso di un badge arcobaleno per facilitare il riconoscimento dello staff sul campo preparato a rispondere a esigenze di questo tipo.

Una realtà che non si può ignorare

La terrificante esperienza del rapimento e delle torture subiti da Nadia nel 2012 hanno reso chiaro che la vita a Baghdad è pericolosa per la comunità transessuale. Mentre alcuni due suoi compagni sono stati uccisi, altri hanno vissuto tormenti spietati.

«In Iraq gay e trans sono perseguitati – spiega Nadia – La maggiorparte dei trans alla fine si suicida perché non c’è vita. Non possono vivere come vogliono».

Nadia è fuggita inizialmente nel Kurdistan iracheno e successivamente nel confinante Iran cercando di dar luogo alla transizione da uomo a donna, ma senza successo. Quando è tornata a Baghdad gli abusi da parte della sua famiglia si sono moltiplicati.

Diffidente di fronte alla diagnosi medica secondo la quale non poteva divenire uomo, suo padre e suo zio l’hanno imprigionata e torturata, sfregandole la pelle con della lana d’acciaio per stimolare la crescita dei peli e iniettandole forzatamente del testosterone.

Alla fine è riuscita a scappare in Libano, aiutata da un dottore e dalla zia. «Mia zia mi ha detto: “Vai e non tornare indietro. Se ti vedranno ti uccideranno” – racconta Nadia – Ho una nuova vita grazie a lei».

Verso un nuovo inizio

A Beirut l’attesa per il reinsediamento non è stata semplice. Le sfide e le difficoltà sono state molte: trovare un lavoro, pagare l’affitto, ricevere insulti dai coinquilini e minacce dalla famiglia del suo nuovo fidanzato, un rifugiato siriano del quale ora indossa l’anello e col quale spera di essere riunita dopo il resettlement».

In futuro Nadia spera di aiutare gli altri: «Sogno di avere una famiglia, un bambino col mio ragazzo. Voglio essere ambasciatrice dei transgender per promuovere la consapevolezza».

Per i professionisti del settore come Maydaa, di Mosaic, il caso di Nadia e innumerevoli altri mostrano che c’è speranza per i rifugiati lgbt in questa regione. Ma conclude che «il cambiamento culturale richiederà tempo».

Da Cartadiroma


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