Le notizie da Rio sul medagliere italiano che si arricchisce non possono che far piacere a tutti, e anche seguire a distanza sforzi, entusiasmi, persino delusioni serve a partecipare in qualche modo all’avventura olimpica che si ripete, ogni quattro anni, da quel 1896 quando Pierre de Coubertin riuscì a ricreare l’antica esperienza dei giochi portatori di tregua, se non di pace, e di incontro tra le genti. Ma non corre tutto liscio, anzi, e in questa edizione in particolare.
La storia di Alex Schwazer, anzi la storia di un test con un percorso anomalo se non dubbio, è una storia oscura che dovrebbe richiamare tutti, pubblico, giornalisti ma anche tutti gli atleti olimpici, a chiedere ad alta voce chiarezza.
Non serve ripetere quanto già scritto da tanti e anche su questo sito sui passaggi poco chiari, da una provetta trasferita da un laboratorio a un altro senza alcun protocollo di sicurezza certificato, a un risultato che cambia in corsa, a una comunicazione arrivata con un mese e mezzo di ritardo e dopo quasi sei mesi dal prelievo, alle pressioni sull’allenatore (e che allenatore), Sandro Donati che alla guerra contro il sistema-doping (perché di sistema si tratta, dando al termine il significato camorristico) ha sacrificato la carriera, decidendo questa ultima sfida a fianco di un atleta reoconfesso che voleva tentare di risollevarsi senza compromessi e con le sue sole forze fisiche, eccezionali.
Pressioni che sono arrivate a configurare un pericolo per Donati e la sua famiglia, intercettazioni telefoniche tra i responsabili dei controlli e delle strutture giudicanti della macchina sportiva internazionale tali da portare all’apertura di due fascicoli giudiziari e a un’audizione in antimafia per lo stesso Donati, a sua tutela. Un quadro, ben ricostruito nella videoinchiesta di Bolzoni e Cappello per Repubblica, che richiama ambienti e pratiche delle grandi organizzazioni criminali, se non fosse che in gioco ci sono ‘solo’ gare sportive, cioè, dovrebbe dire la stessa parola, pulite, amichevoli anche se condite da un’alta competitività.
Questa storia, la storia di Alex che nei quasi quattro anni di squalifica per doping (vero e ammesso in pubblico) ha rappresentato con la sua persona e le sue marce nelle strade di campagna dei suoi monti, per le vie delle periferie romane e in circuiti di borgata, la speranza che lo sport potesse davvero farcela con le proprie gambe e senza aiutini di straforo o di sistema. Sarebbe stata una vittoria della legalità e della pulizia sulle mafie e lo sporco che imperversa anche in quel mondo idealizzato da de Coubertin. Non poteva essere.
In quest’ultimo anno (ma non solo) abbiamo assistito a un crescendo di scandali, inchieste, teste che saltavano, diritti (soprattutto diritti) scambiati come fossero carichi di cocaina, per le modalità dello scambio e per i guadagni stratosferici ottenuti alla loro ombra. Guadagni che, per inciso, paghiamo tutti noi, come cittadini e non solo come consumatori.
E anche il doping è stato agitato come spauracchio per guerre di potere e di denaro, fino alla pax olimpica, con riammissione di intere federazioni nazionali dai comportamenti tanto sospetti da far impallidire persino il ricordo delle nuotatrici super pompate della Ddr, la Germania dell’est di prima della caduta del muro. Ma qualcuno doveva pur pagare.
La sentenza definitiva del Tas, otto anni lontano dai circuiti, praticamente un ergastolo per un corridore trentunenne, era considerata scontata, ed è arrivata all’ultimo momento utile prima della 20 km di marcia, dopo un confronto davanti alla giustizia sportiva a dir poco lesiva del diritto alla difesa che dovrebbe essere garantito a qualsiasi imputato. Non è neanche necessario schierarsi tra innocentisti e colpevolisti nei confronti dell’atleta, basta dire chiaramente che questa giustizia sportiva non è tale e la Iaaf che vi sovrintende, voltando la faccia dall’altra parte quando sono stati rivelati fatti gravissimi che coinvolgono gli stessi controllori, non può chiamarsi fuori. E non possono più tacere tutti gli altri atleti olimpici, soprattutto quante e quanti con il doping non hanno mai avuto a che vedere e oggi portano a casa fior di medaglie. Perché se non si fa chiarezza e pulizia in casa Iaaf resterà un’ombra anche sui loro meritatissimi risultati. E la ricerca di verità non può essere lasciata alla magistratura ordinaria: ancora una volta ad essere chiamata in causa è la categoria dei giornalisti, non solo e non tanto il classico giornalismo investigativo ma ancor più il mondo dei cronisti sportivi che di dietro le quinte sanno molto e potrebbero meglio e più facilmente di altri colleghi verificare, ricostruire, leggere carte e incrociare i fili che legano potenti controllati a potenti controllori. Certe volte a raccontare i fatti non servono intercettazioni e fascicoli coperti da segreto, ma basta fare bene il mestiere di cronista.
Sui social imperversa l’hashtag #iostoconAlex. Accanto bisogna aggiungere #iostoconlaLegalitanelloSport. Un po’ lungo ma rende l’idea.