In 19, tutti giornalisti, scendono i gradini del Tibunale di Istanbul, sono tenuti per le braccia da agenti della polizia giudiziaria, gli uomini dagli uomini le donne dalle donne. Siamo in Turchia. Per loro e per tutti gli altri operatori dell’informazione finiti nel mirino di Recep Tayyip Erdogan una delegazione della Federazione nazionale della stampa guidata dal presidente Beppe Giulietti e dal segretario Raffaele Lorusso incontrerà oggi alle 16,30 il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni al quale sarà presentata la richiesta di un’iniziativa internazionale per l’affermazione dei diritti umani e per la libertà di espressione in Turchia e sarà consegnata la petizione dei giornalisti europei a sostegno della stampa turca.
L’immagine dei nostri colleghi, scortati dalla polizia all’uscita dal Palazzo di Giustizia dove sono stati accusati di far parte di una rete terroristica, e’ emblematica.
La tensione è alta ma sul loro viso si legge la fierezza di chi paga per non aver piegato la schiena dinanzi al potere autoritario. Tre giorni prima a finire in carcere erano stati in 47.
Sono loro i primi per i quali venerdì il tribunale ha confermato la detenzione nell’ambito della seconda mandata di 42 arresti di mercoledì scorso dopo il fallito golpe del 15 luglio.
Grazie al cronista Mahir Zeynalov abbiamo potuto vedere i loro volti, conoscere le loro storie.
Da quando è iniziata l’ondata di fermi, sia nel settore dell’informazione che in quelli della pubblica amministrazione, militare e accademico, Zeynalov ha cominciato a pubblicare su Twitter le foto dei colleghi arrestati. Ci sono Mazli Ilican e Hanim Busha Erdal, le uniche donne coinvolte nella retata di questa settimana. La prima, 72enne veterana del giornalismo turco ed ex parlamentare. La seconda, poco più di 30 anni, cronista di giudiziaria. E ancora, Arda Akim e Bulent Mumay, rispettivamente editorialista ed ex caporedattore responsabile dell’edizione online di “Hurriet”, uno dei principali giornali liberale turchi. C’è anche Bunyamin Kosel, tra i più bravi e conosciuti reporter investigativi del Paese e Mehmet Gundem, che con le sue interviste scomode non è mai piaciuto ai signori del Palazzo presidenziale.
E poi Jemal Kalyoncu, Ali Akkus, Abdullah Kilk, Yakup Cetin, Ali Bulac, Cihan Acar, Ufuk Sanli, Hasim Soylemez, Bayram Kaya, Sahin Alpay, Emre Soncan e Muntazer Turkone, che avevano tutti collaborato a vario titolo per il quotidiano Zaman, chiuso come molti altri giornali ritenuti possibili ‘covi’ di spie.
I provvedimenti di chiusura di enti di istruzione o di testate giornalistiche hanno finora coinvolto migliaia di persone eppure la repressione voluta da Recep Tayyip Erdogan all’indomani del fallito golpe non sembra destinata ad esaurirsi presto.
A essere vittime di una vera e propria caccia al traditore sono soprattutto i giornalisti. Almeno un centinaio di nostri colleghi sono già finiti in carcere e non è ancora finita. Tutti sono ‘sospettati’.
Ad oggi i media chiusi sono 130, di cui tre agenzie di stampa, 16 canali televisivi, 23 emittenti radiofoniche, 45 giornali, 15 magazine e 29 case editrici.
Tra le testate costrette a cessare le pubblicazioni anche Zaman, che lo scorso marzo era già stato chiuso, per poi essere riaperto con un’amministrazione ‘fiduciaria’ imposta dal governo e un direttore scelto da Erdogan.
Il quotidiano, ritenuto vicino a Fethullah Gulen, il più determinato oppositore del presidente turco che lo accusa di essere l’ideatore del tentativo di colpo di stato, era stato più volte posto sotto sequestro e corpo giornalistico ed editore erano costantemente sotto minaccia.
Il 9 novembre del 2015 era stato spiccato anche un mandato di arresto per Gulen e altri esponenti dell’opposizione, tra cui molti giornalisti, accusati di cospirazione.
La notte del 3 marzo l’epilogo, gravissimo, con l’assalto delle forze di sicurezza nella redazione e lo sgombero dei dipendenti e l’arresto di chi rifiutava di lasciare il giornale.
Il blitz della polizia era stato autorizzato dopo la decisione della sesta corte penale di Istanbul che aveva sentenziato il commissariamento del gruppo editoriale di Gulen.
Gli agenti si sono fatti strada con la forza, riuscendo a disperdere i manifestanti che erano accorsi dinnanzi alla sede della testata. Una volta forzato il cancello principale, hanno scortato all’interno il personale incaricato di svolgere le nuove funzioni di redaziine e direzione e costretto gli operatori del quotidiano a lasciare l’edificio.
Il governo turco aveva così sferrato l’attacco più brutale alla libertà d’informazione nel suo paese.
Già la settimana precedente era stata chiusa l’emittente televisiva IMCTV, unico canale nazionale a riportare un punto di vista non governativo sulle operazioni militari e il coprifuoco nel sud-est del paese. Trasmissioni sospese, senza alcuna possibilità di ripresa.
Poi l’annuncio dell’assunzione del controllo da parte del governo di Zaman, come era già accaduto pochi mesi prima al gruppo editoriale Koza Ipek, costretto a un’amministrazione controllata su decisione di un tribunale compiacente.
Oggi a seguire la stessa sorte altri due quotidiani dell’editore di Feza Gazetecilik, legato all’imam Gulen.
Il principale rivale di Erdogan che in passato era stato tra i suoi più fedeli alleati continua a negare di avere alcun coinvolgimento con il tentativo di golpe. Come ha sempre respinto le accuse di svolgere propaganda terroristica a favore del cosiddetto “Stato parallelo”, ovvero la rete che secondo i vertici di Ankara sarebbe stata creata dal Movimento Hizmet per promuovere attività sovversive in Turchia.
L’autorità religiosa non ha esitato a denunciare che il recente giro di vite della autorità turche, approfittando dello Stato di emergenza, sia solo un pretesto dell’Akp e del presidente Erdogan per giustificare il proprio autoritarismo.
Nel novembre dello scorso anno il tribunale di Istanbul aveva stilato una serie di imputazioni contro Gulen e coloro che erano ritenuti suoi fiancheggiatori, un dossier di oltre 10.500 pagine.
Oggi gran parte dei sospettati di quelle indagini sono stati arrestati.
All’azione repressiva delle ultime due settimane in Turchia, che prosegue nonostante le critiche della comunità internazionale, sono seguite minacce di ritorsioni agli Stati uniti, colpevoli di non voler estradare Gulen, rifugiato da anni negli Usa, e all’Unione europea, rea di aver espresso preoccupazione per lo stato della libertà di azione e di espressione in Turchia.
All’interno del Paese sta crescendo il movimento che chiede la fine dello Stato di emergenza e il ripristino delle pluralità di informazione, che non sempre era garantita già prima del 15 luglio.
“La democrazia continuerà e la voce dei media liberi non sarà zittita – aveva dichiarato il direttore di Zaman, Abdulhamit Bilici, il giorno del blitz delle forze di sicurezza di alcuni mesi prima – anche se dovremo scrivere sui muri”.
Ma nell’era digitale non sarà necessario arrivare a tanto.
Mettere a tacere la stampa in un’epoca in cui il multimediale, i social e i mezzi di comunicazione alternativi sono ormai alla portata di tutti, non sarà facile. Il tentativo di Erdogan di imbavagliare l’informazione sarà meno agevole anche grazie a tutti noi che vigileremo e sosterremo i colleghi turchi continuando a ribadire #nobavaglioturco.