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Il “democratico” Erdogan e la miopia dell’Occidente

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Non sappiamo se abbia ragione Fethullah Gülen, guida spirituale dell’islamismo conservatore e un tempo sostenitore di Erdogan, finché quest’ultimo non ha deciso di dar fondo alle proprie smisurate ambizioni di potere, facendo di fatto fuori chiunque potesse essergli d’ostacolo.

Non sappiamo, dunque, se davvero il Sultano sul Bosforo si sia fatto un golpe per poter sbaragliare definitivamente le opposizioni e portare a compimento quella riforma presidenziale che ne farebbe il dominus assoluto della politica turca, esautorando in pratica minoranze, opposizioni e istituzioni.
E non sappiamo nemmeno cosa accadrà nei prossimi giorni, se davvero verrà reintrodotta la pena di morte, abolita nel 2004, come auspicano parecchi politici dell’AKP per punire i traditori e dare un fortissimo segnale a chi volesse riprovarci in futuro.

Una cosa, tuttavia, è certa: d’ora in poi, il pugno di Erdogan sulla Nazione, già pesantissimo e feroce, si farà ancora più duro, eliminando tutte le residue garanzie costituzionali e smantellando quei diritti fondamentali che costituiscono la differenza fra una democrazia compiuta e un regime.
Perché la Turchia, da quando Erdogan ha preso il potere, è solo una parvenza di democrazia, un regime nel quale i giornalisti vengono incarcerati a frotte, gli oppositori rischiano la vita, e spesso la perdono, i curdi vengono massacrati con la scusa di combattere l’ISIS e l’ISIS, quanto pare, viene costantemente foraggiato e comunque aiutato in funzione anti-Assad e per mantenere e rafforzare il ricatto nei confronti dell’Occidente per quanto riguarda la drammatica questione dei profughi.
Senza dimenticare i rapporti estremamente tesi con la Russia di Putin, specie da quando, nello scorso novembre, fu abbattuto un caccia russo con la scusa di sorvolo non autorizzato dei cieli turchi, e persino con il Vaticano e con la Germania, in quanto né papa Francesco né la cancelliera Merkel sono più disposti a tacere o a mentire in merito al genocidio degli armeni di un secolo fa.
Questo è, dunque Erdogan: un oscurantista, un convinto sostenitore dell’islam più radicale, un fautore del tentativo di recuperare alla Turchia la centralità perduta in seguito alla dissoluzione dell’Impero Ottomano, un politico spregiudicato e animato da una smisurata ambizione di potere, alimentata con massicce dosi di corruzione, la quale ha progressivamente prevalso sul buonsenso, inducendolo a smantellare tutti i controlli, i limiti e le libertà democratiche, chiudendo testate ostili e scatenando una sanguinosa repressione nei confronti di quell’universo curdo che praticamente da solo, almeno in quella regione, sta provando a fronteggiare una minaccia di proporzioni mondiali che nell’ultimo anno e mezzo ha deciso di esportare la jihad anche in Europa, sconvolgendo per tre volte la Francia e lo scorso 22 marzo il Belgio.

Che dire, pertanto, della reazione dell’Occidente, dove qualche eroe dei nostri tempi si è spinto addirittura a parlare di una vittoria della democrazia contro la barbarie golpista? Chi sarebbe, di grazia, il sincero democratico che agisce fra Ankara e Istanbul? Erdogan, per caso, il quale ha già ordinato l’arresto di seimila oppositori, fra cui 2.745 magistrati non allineati, e minacciato di arrestarne altrettanti nei prossimi giorni per via del loro presunto coinvolgimento nel fallito colpo di Stato di venerdì sera? Sarebbe questo l’interlocutore col quale rapportarsi per dirimere le tragiche vicende mediorientali e dare scacco matto al terrorismo del Daesh?

Il guaio è che l’Europa, anche per colpa di una Merkel in affanno nel proprio Paese, a causa della chiusura e degli attacchi ricevuti da una parte consistente dei suoi alleati interni, e in particolare dai bavaresi della CSU, in seguito alla scelta umanitaria di accogliere un poderoso numero di profughi siriani, il Vecchio Continente, dicevamo, non ha trovato di meglio che mettersi nelle mani del Sultano, offrendogli concessioni mai viste e attribuendogli un potere smisurato che ora rende impossibile agli inquilini delle cancellerie continentali sconfessarne o metterne almeno in discussione i metodi.

E lo stesso vale per un Obama ormai agli sgoccioli del suo mandato presidenziale, in quanto non può consentire all’ala più bieca e retriva dei repubblicani di fare campagna elettorale su una sua eventuale intesa con Putin per annientare la piaga dell’ISIS, pur sapendo benissimo, come dimostra la vicenda della liberazione del sito archeologico di Palmira, che senza l’impegno in prima linea dell’esercito russo il Califfo può dormire sonni tranquilli.

Lo sa, e probabilmente avrà già concordato con la Clinton che, in caso di successione alla Casa Bianca, ponga questo tema al centro della propria agenda, ma sa anche di non poter apparire filo-russo in una fase delicatissima della corsa presidenziale, specie in un momento in cui Trump sta cercando di ricucire gli strappi con il proprio partito attraverso la scelta, come vice, del governatore dell’Indiana, Michael Pence.

Allo stesso modo, lo sa anche Putin, il quale probabilmente non ne può più, ed è tangibile, dell’arroganza e delle provocazioni del Sultano sul Bosforo ma sa anche, da fine esperto di diplomazia e servizi segreti qual è, di non poter destabilizzare ulteriormente una regione già bollente, a tutela degli interessi stessi del suo Paese, serbatoio di una parte cospicua dei fondamentalisti islamici attivi fra Siria e Iraq, con il rischio che tornino in Patria come schegge impazzite e pronte a colpire in qualunque momento.

L’Europa, invece, non ha alcuna strategia: non sa da che parte schierarsi, ha fatto inizialmente il tifo per i golpisti, sia pur in silenzio e con la dovuta cautela, salvo poi dover compiere una precipitosa retromarcia e inginocchiarsi vergognosamente di fronte allo scomodo alleato; non esiste, non c’è, ha innumerevoli problemi interni da dirimere ed è clamorosamente assente da uno scenario caldissimo e dal quale, con ogni probabilità, dipendono le sorti del pianeta nei prossimi vent’anni.
Da qui, l’amara sensazione che l’approssimazione e l’ingenuità degli artefici del fallito putsch abbia consegnato al Sultano un potere e una popolarità senza precedenti, consentendogli di riuscire nell’impresa, cui lui stesso aveva ormai quasi rinunciato, di passare da un presidenzialismo di fatto a un presidenzialismo di diritto, con conseguenze imponderabili per un Paese cuscinetto, a metà strada fra due mondi che hanno capito di dover collaborare per sconfiggere i nuovi barbari ma non hanno ancora capito come dare seguito a questo proposito e come comportarsi una volta estirpata la mala pianta del jihadismo.

Nei prossimi sedici mesi, ha spiegato Letta in seguito al referendum sulla Brexit, ci giochiamo il destino dell’Europa: è così, e la questione mediorientale e dei migranti è senz’altro una componente essenziale per determinare se alla fine prevarrà la civiltà o l’abisso.


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