Pubblichiamo, in quanto di indubbio interesse, le motivazioni della sentenza del 7 giugno 2016, del giudice Gianluigi Visco del Tribunale di Trapani
Il giudice ha assolto il giornalista Rino Giacalone dall’accusa di diffamazione, affermando che il fatto addebitatogli “non costituisce reato” essendo stato commesso nell’esercizio del diritto di critica, che ha considerato “causa di giustificazione”.
Giacalone fu querelato dalla vedova del capomafia di Mazara del Vallo, Mariano Agate, per un articolo pubblicato sul blog “Malitalia” il 4 aprile 2013, giorno successivo alla morte del boss per malattia, all’età di 73 anni. Il giornalista ne aveva ricostruito la lunga ed efferata carriera criminale e aveva concluso definendolo”un gran bel pezzo di merda”. Di seguito l’estratto della parte conclusiva delle motivazioni. Il testo integrale si può leggere a questo link.
A parere di questo Giudice, la peculiarità del caso in esame è da ravvisare nella circostanza che l’intervento scritto del GIACALONE imponeva al lettore di confrontarsi con il sistema pseudo-valoriale proposto dall’associazione di cui era parte l’ AGATE, in un contesto ambientale nel quale la confusione (o apparente coincidenza) tra valori e dis-valori costituisce un obbiettivo preciso del sodalizio criminoso: obbiettivo, questo, da realizzarsi anche attraverso la mistificazione di concetti/ nozioni/ atteggiamenti generalmente condivisi dalla comunità e la cui finalità ultima è quella di rinforzare gli spazi di efficienza dell’associazione criminale nel territorio in cui opera.
In questo contesto, l’utilizzo di espressioni come quelle impiegate dal GIACALONE (“gran bel pezzo di merda”) costituisce uno strumento retorico in grado di provocare nel lettore un senso di straniamento che lo interroga sulla validità delle prospettive tradizionali, e ciò allo scopo di sollecitarlo ad una nuova consapevolezza sulla necessità di sradicare ogni ambiguità nella scelta tra contrapposti (seppure artatamente confondibili) sistemi valoriali.
Del resto, nel contesto sociale in cui operava il GIACALONE, l’artifizio retorico-denigratorio da lui utilizzato – proprio per la sua appartenenza ad un registro linguistico “basso” – appare quello più efficace a innescare un percorso di consapevolezza in un più elevato· numero di persone, poiché in grado di produrre i suoi effetti anche (e soprattutto) in coloro che, per intrinseci limiti culturali, si trovano più esposti al rischio di confusione tra valori e dis-valori: rischio che, come già chiarito, costituisce l’effetto di una precisa strategia dell’associazione mafiosa.
Sotto questo profilo, ove si consideri che l’espressione denigratoria utilizzata dal GIACALONE costituì il momento di chiusura del suo intervento scritto – intervento nel quale era descritta sinteticamente la vita criminale e associativa dell’AGATE – non può dubitarsi circa la non gratuità dell’offesa e l’interesse pubblico che sottendeva la sua condotta.
E invero, il GIACALONE non inserì l’espressione offensiva in un contesto isolato e gratuito, ma egli ebbe cura, attraverso la descrizione delle scelte di vita (criminali) del defunto, di creare nel lettore una stretta correlazione tra tali espressioni e la necessità di liberarsi da ogni residua ambiguità – anche soltanto inconscia o latente – nel confrontarsi con la pericolosità dell’associazione mafiosa di cui l’AGATE fu uno dei massimi rappresentati.
Tali conclusioni non sono influenzate dalla circostanza che il GIACALONE pronunciò quelle espressioni subito dopo il decesso dell’AGATE: all’opposto, tale circostanza temporale accresce la valenza utilitaristica della condotta del GIACALONE, essendo pacifico che la morte di un individuo costituisca il momento in cui con maggiore forza s’impone in coloro che lo conoscevano – anche soltanto nella sua immagine pubblica – un bisogno di confrontarsi con le scelte di vita (proprie e) del defunto, e ciò eventualmente in una chiave di ripensamento del proprio approccio al fenomeno mafioso.
In definitiva, deve ritenersi che l’utilizzo da parte del GIACALONE dell’espressione «un gran bel pezzo di merda» riferita all’AGATE – considerando il contenuto complessivo dell’intervento e il contesto temporale in cui tale espressione fu pronunciata – non costituisca una violazione dei limiti posti dall’ordinamento all’esercizio del diritto di critica.
Per queste ragioni, nei confronti del GIACALONE deve pronunciarsi sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
visti gli articoli rubricati, 51 c.p. 21 Cost., 530 c. 1 e 3 prima pt. c.p.p.
ASSOLVE
Gaspare GIACALONE dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato essendo stato commesso in presenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di critica.