Reporters sans frontières ha lanciato una campagna per chiedere le liberazione di Erdold Onderoglu, il suo rappresentante in Turchia da più di 20 anni, arrestato insieme allo scrittore Ahmet Nesin e alla docente universitaria e attivista per i diritti umani Sebnem Korur Fincanci. Hanno subito risposto oltre 100 giornalisti e intellettuali turchi che non intendono piegarsi alla repressione del governo di Ankara, nonostante l’ormai sempre più aperta minaccia del Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdoğan, contro tutti coloro che ritiene suoi nemici: giornalisti che raccontano i fatti e svelano verità celate dallo Stato, intellettuali che denunciano la violazione dei diritti umani, partiti di opposizione che contrastano i suoi disegni.
Un appello a cui anche noi di Articolo 21 non possiamo che aderire. Da oggi, sul sito, è partita una campagna di raccolta firme per esprimere, sì, la nostra solidarietà a Onderoglu e al quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem, ma soprattutto per dire no al bavaglio turco, per chiedere la scarcerazione delle decine di giornalisti oggi in carcere in Turchia.
I tre intellettuali sono tutti accusati dal tribunale di Istanbul di “sostegno al terrorismo del Pkk” (il partito curdo dei lavoratori definito in Turchia e negli Usa organizzazione terroristica) per aver partecipato alla campagna di solidarietà per il quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem, raggiunto da decine di procedimenti penali che l’accusano, in sostanza, di avere legami col Pkk. Per molti intellettuali, l’unica colpa è stata semplicemente raccontare cosa stava accedendo ai civili nel sud-est del paese, nelle città turche a maggioranza curda che da luglio 2015 vengono bombardate dagli aerei dell’esercito. Il quotidiano aveva lanciato l’iniziativa “Caporedattore per un giorno”, invitando tutti i giornalisti turchi a scrivere sulle proprie pagine, per raccontare il loro punto di vista e per mettere in evidenza quanto il giornale venisse vessato da procedimenti, inchieste, denunce col solo scopo di silenziare la libertà di espressione. A questa iniziativa hanno partecipato oltre 40 giornalisti, tra questi, nomi molto noti in Turchia, come Hasan Cemal e Ceyda Karan, appena condannata a due anni per aver pubblicato sul quotidiano d’opposizione Cumhuriyet le vignette satiriche di Charlie Hebdo.
Secondo Mariano Giustino, corrispondente di Radio radicale in Turchia, “i tre arresti di lunedì sono indubbiamente da mettere in relazione con gli editoriali che gli intellettuali hanno scritto nelle giornate in cui sono stati ‘caporedattore per un giorno’. Sono solo l’ennesimo tassello di una strategia che mira a intimidire e schiacciare ogni opposizione al governo dell’Akp, in particolare quella curda”. Per Sebnem Korur Fincanci, accademica e anche presidente della Fondazione dei Diritti dell’Uomo (Tihv), l’accusa che le è rivolta è infondata e intimidatoria: “tutti i miei editoriali – ha detto – sono basati sul tema della libertà di espressione, non certamente di sostegno al terrorismo”.
L’accusa di terrorismo, in quest’ultimo anno, è stata utilizzata svariate volte da diversi tribunali, utilizzandola nei casi più disparati. Queste azioni – definiti ‘abusi’ da molti attivisti delle democrazie occidentali – in Turchia sono possibili grazie alla famosa legge antiterrorismo che l’Unione Europea da tempo chiede di modificare come pre-condizione di adesione all’Ue e fa parte di quei criteri da soddisfare per ottenere l’abolizione dei visiti nell’area Schengen per i cittadini turchi. Una modifica che Erdoğan si rifiuta categoricamente di attuare. “Una legge che molti intellettuali denunciano come liberticida – commenta da Istanbul Mariano Giustino – perché ha una concezione del terrorismo e una applicazione dei reati – legati anche ai reati di opinione – così ampia da finire per essere arbitrariamente usata, per cui è facilissimo finire sotto inchiesta solo perché ci si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato o perché si mostra sostegno verbale alle istanze curde di maggiore autonomia”. Persino noi che ne scriviamo potremmo subire le stesse accuse di sostegno al terrorismo.
“C’è una vera e propria svolta, una éscalation – continua Giustino – questo ormai non è più un conflitto a bassa intensità, ma una vera e propria guerra, che si è inasprita negli ultimi mesi dopo che il premier Davutoğlu è stato estromesso dal governo”. Dopo tre anni di negoziati di pace tra Pkk e Ankara – durante i quali sono stati interrotti gli scontri che in 40 anni hanno fatto più di 40mila vittime – a luglio Erdoğan ha interrotto unilateralmente la tregua e da allora è tornato a scorrere il sangue. Ankara ha imposto il coprifuoco in molte città curde, mitragliando e bombardando interi quartieri con l’intento dichiarato di colpire militanti del Pkk, ma nel contempo uccidendo indifferentemente donne, anziani e bambini. Si parla – ma è difficile fornire una cifra esatta – di centinaia di morti e migliaia di persone scappate dalle loro terre in un esodo che cambierà profondamente la composizione della popolazione del sud-est del paese. “Da quando Davutoğlu è stato estromesso dal governo ed Erdoğan ha imposto come premier il suo braccio destro, Binali Yldirim, le cose sono peggiorate”, racconta Giustino. “Assistiamo a riunioni di gabinetto del governo presiedute dallo stesso capo dello Stato. Di fatto non esiste più una Repubblica parlamentare, ma c’è presidenzialismo de facto non votato dal Parlamento. Una forzatura delle regole democratiche che l’ex premier Davutoğlu cercava, in qualche modo, di arginare – qualche volta riuscendoci – e non a caso è stato mandato via”. Il vero sogno del sultano è sempre stato quello realizzare la riforma costituzionale in senso presidenziale. Un sogno infranto dalla vittoria totalmente inaspettata del partito filo-curdo Hdp alle elezioni di luglio 2015 prima, e poi a quelle di novembre.
Durante una di queste riunioni di gabinetto è stata varata la cosiddetta ‘strategia dell’attacco preventivo’ nella lotta al Pkk, “molto simile, come concessioni, alla strategia di Bush dopo l’11 settembre – commenta sempre Giustino – vale a dire, l’attacco preventivo al terrorismo islamico di cui ancora paghiamo i danni”. Questo significa che se, prima, nelle aree rurali del sud-est della Turchia e nel Nord dell’Iraq, il governo si limitava a rispondere a eventuali attacchi da parte del Pkk, adesso è in corso una vera e propria guerra con elicotteri e F16 per stanare nei bunker i militanti del Pkk e per colpire i loro depositi di armi. Lo stesso governo ha annunciato che “le operazioni militari finiranno soltanto quando i militanti saranno completamente schiacciati sia all’interno della Turchia, che all’esterno”, riferendosi ai curdi che sia in Siria che in Iraq stanno combattendo contro le milizie dell’Isis, liberando Kobane e Sinijar e ora stanno lottando – con l’aiuto degli americani – per liberare Raqqa.
Con questi attacchi, a partire da luglio, Ankara ha sconfitto la resistenza curda nelle città, radendo completamente al suolo, dopo mesi di bombardamenti, il centro storico di Diyarbakir, interi quartieri di Cizre e di Nusaybin. “Credo che nell’idea di Erdoğan ci sia quella di un cambiamento demografico in quelle zone abitate da sempre dai curdi: distruggere per poi ricostruire tutto ripopolando quelle terre magari con popoli siriani”, dice Giustino. Per questo, dopo aver sconfitto la guerriglia nelle aree urbane, ora il programma di governo è colpire le aree rurali dove l’esercito sta intervenendo con l’aviazione. Una vera e propria guerra, in corso in questo momento, in un paese Nato, di cui praticamente nessuno parla.
Ad aggravare la situazione in quella che ormai difficile definire una democrazia, c’è stata l’abolizione dell’immunità parlamentare per i deputati del partito filo-curdo Hdp firmata dallo stesso Erdoğan. I procedimenti penali sono già in corso, sono oltre 158 i parlamentari che rischiano la galera con le accuse più disparate: dal sostegno al terrorismo all’offesa al Presidente. Tutti i partiti di opposizione sono coinvolti, ma la situazione peggiore è per l’Hdp, che vede 50 – su 59 – deputati indagati. Oltre 90 procedimenti pendono sulla testa del co-presidente del partito, Selahattin Demirtaş, per cui la Procura di Ankara ha chiesto una pena detentiva di due ergastoli e 486 anni di carcere. Per Demirtaş l’abolizione dell’immunità – introdotta dall’AKP e approvata dal CHP e dal MHP sulla base di un’alleanza anti-curda – “è un colpo di Stato firmato da due partiti e mezzo. Nessuno dei nostri colleghi accetterà la richiesta di testimoniare inoltrata dai pubblici ministeri e dai tribunali. Nessuno deve aspettarsi che accettiamo una dittatura aperta”.
Per Mariano Giustino quest’operazione “è ritenuta necessaria da Erdoğan per eliminare dal Parlamento i deputati filo-curdi e conquistare così i 2/3 dei voti per raggiungere quella maggioranza necessaria a varare la riforma costituzionale in senso presidenziale che da anni cerca di ottenere”.
C’è poi l’aspetto dei militari in Turchia. Fino al 2013 esisteva una legge che avevo lo scopo di prevenire qualsiasi ingerenza delle gerarchie dell’esercito in politica: fino ad allora erano autorizzati solo a proteggere i confini dalle minacce straniere. Ora il governo, nonostante la legislazione vietasse ai militari di partecipare a operazione di sicurezza interna, con alcuni provvedimenti gli ha dato ordine di sopprimere il Pkk nel sud-est anatolico, dove prima interveniva soltanto la gendarmeria.
“Questa è un’anomalia – commenta Giustino – Prima Erdoğan ha tolto potere ai militari per evitare il rischio che potessero di nuovo intervenire nella vita politica, ora che ne ha cambiato i vertici, mettendo uomini di sua fiducia, gli ha dato il potere di intervenire direttamente contro i curdi nel sud-est, utilizzando armamenti da guerra: carri armati, caccia, cobra. Nel frattempo le gendarmerie, sono passate sotto il potere del ministro dell’interno, vengono utilizzate nelle nelle aree rurali anatoliche per operazione anti-terrorismo. La preoccupazione dei vertici militari di poter finire sotto inchiesta per crimini contro l’umanità – dovendo, dal 2010, sottoporsi al giudizio dei tribunali civili e non più militari – è stata risolta con una semplice legge ordinaria: per mettere sotto inchiesta membri dell’esercito, servirà l’autorizzazione del Presidente della Repubblica. Qualsiasi tribunale civile non può procedere senza il consenso di Erdoğan. “Una situazione senza speranza – commenta Giustino – una cosa passata quasi sotto silenzio e che ha fatto tornare indietro di decenni la Turchia. I militari cacciati dalla porta stanno rientrando dalla finestra, ma sotto il controllo di Erdoğan che, per di più, ne ha deciso i vertici. In eventuali degenerazioni delle proteste di piazza, con queste modifiche legislative, potrebbe far intervenire i militari dietro suo ordine”. D’altronde il capo dello Stato lo ha già fatto nel sud-est del paese. “In Turchia – conclude Giustino – si è instaurato un regime che con la democrazia non ha più niente a che fare”.