Fantasia, caos, spettacolo, populismo. La politica italiana scala sempre nuove vette fino a sperimentare l’algoritmo, un complesso strumento di calcolo della matematica, un tempo confinato tra gli studenti nelle aule dei licei e delle università. Espulsione sì, espulsione no. Pace sì, pace no. Nel M5S è braccio di ferro tra chi vuole la rottura con Federico Pizzarotti e chi intende evitarla. Il sindaco di Parma ha negato di aver infranto qualche norma interna. Ha illustrato la sua difesa in una conferenza stampa: ha bollato il provvedimento di sospensione preso contro di lui dal vertice cinquestelle come «iniquo e illegittimo, espressione di un evidente caso di abuso di diritto». Il sindaco di Parma ha rilanciato la volontà di restare, di essere «felicissimo di rimanere a far parte a pieno titolo del M5S» se sarà revocata la sua sospensione. Ha chiesto di «ristabilire un nuovo rapporto di confronto, condivisione e discussione tra il centro e le periferie».
Adesso la palla passa al vertice pentastellato. Pizzarotti è stato sospeso a metà maggio per «la totale mancanza di trasparenza» in merito a un avviso di garanzia per abuso d’ufficio a suo carico risalente, pare, a febbraio. Il vertice ha sottolineato: «Non si attendono le sentenze per dare un giudizio politico». A botta calda il sindaco aveva attaccato «la mail anonima» con la quale era stato sospeso, invocando il rispetto delle regole. Tutto è in movimento. Potrebbe arrivare un riavvicinamento o la rottura. Tra i grillini “dialoganti” e i “duri” la partita è aperta. Il timore, diffuso tra tutti, è di compromettere un esito positivo delle elezioni comunali del 5 giugno, se dovesse continuare lo scontro interno su Pizzarotti. Il sindaco di Parma è un amministratore molto apprezzato fuori e dentro i cinquestelle. È un riferimento importante, inoltre, per i dissidenti del M5S e una frattura potrebbe avere rischiose conseguenze a catena. Così è improbabile una espulsione di Pizzarotti, almeno fino alle elezioni di giugno per i sindaci.
Una cosa è sicura: sono scomparsi per ora i toni accesi, gli attacchi reciproci per la violazione dei principi di trasparenza politica o di democrazia interna. Beppe Grillo, a metà maggio quando era esploso lo scontro interno, tra il serio e il faceto, era arrivato a chiedere aiuto agli algoritmi, per decidere le espulsioni. Il comico, fondatore del M5S, indicava una innovazione: «Hai un algoritmo e non ci sono intermediari. Se usato in politica potrebbe essere interessante: se un parlamentare che hai votato non segue il programma è automaticamente espulso». Una novità: in tre anni di legislatura, oltre 30 parlamentari pentastellati sono stati espulsi o hanno detto addio tra aspre accuse, senza ricorrere a complessi calcoli matematici.
Adesso, come possibile mezzo automatico di espulsione, è apparso anche l’algoritmo; il magico e inusuale vocabolo riemerge dalla memoria delle ore di studio passate al liceo sui testi di matematica. Il fantasioso Grillo, però, non è stato il primo a proporlo come un elemento della lotta politica italiana. Già Roberto Calderoli aveva lanciato “gli algoritmi” come potenti strumenti della battaglia politica. Il creativo senatore leghista, lo scorso settembre, aveva presentato ben 85 milioni di emendamenti (ottantacinquemilioni!), elaborati al computer da un fidato ingegnere informatico tramite misteriosi algoritmi, per bloccare a Palazzo Madama la riforma costituzionale del governo.
Si scatenò una infuocata battaglia tra la maggioranza e le opposizioni sulla nuova tecnica ostruzionistica. Calderoli alla fine del settembre 2015, dal suo scranno contestò i calcoli del presidente del Senato Pietro Grasso sui tempi per esaminare le sterminate richieste di modifica: «Lei ha detto che impiegherebbe 17 anni per leggere gli 85 milioni di emendamenti. Io ho calcolato, grazie al mio algoritmo, che lei starebbe qui 161 anni se vi ci dedicasse 24 ore al giorno». Tuttavia Calderoli perse la partita ostruzionistica perché Grasso applicò “la tagliola”, il meccanismo parlamentare che permette di cancellare gli emendamenti ripetitivi o simili a quelli già votati in precedenza. In un solo colpo ne fece fuori 72 milioni, considerati “irricevibili”. E il Senato, alla fine di un lungo e drammatico scontro, approvò la riforma costituzionale del governo.
Gli algoritmi, la matematica non riuscirono a risolvere dei problemi politici. In quel caso non riuscirono a bloccare il superamento del bicameralismo paritario, fortemente voluto da Matteo Renzi. Alla fine sono politiche le risposte da dare ai problemi politici, le scorciatoie non portano lontano. In autunno saranno i cittadini a dire “sì” o “no” alla riforma costituzionale mediante un referendum confermativo. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd non a caso ha ripetuto: se perderà al referendum andrà “a casa” perché verrebbe bocciata la principale riforma del suo governo. Anche nel M5S sembra tramontare ogni ipotesi di tecnicismo da algoritmo. Luigi Di Maio ha avvertito: «L’algoritmo di Grillo per cacciare chi tradisce il programma? Solo una battuta da comico». Il giovane vice presidente della Camera, astro nascente dei cinquestelle, ha riportato tutto a parametri politici: in ogni caso «decide il garante Beppe Grillo» su sospensioni ed espulsioni.
Certo la tattica, alle volte, può aiutare. La riforma costituzionale proposta da Renzi ha dovuto faticare due anni al Senato e alla Camera prima di essere votata. L’effervescente Calderoli ha tentato il colpaccio a Palazzo Madama, ramo del Parlamento nel quale il governo ha una maggioranza risicata. Lo scorso settembre il vice presidente leghista del Senato parlava quasi da esperto di fantascienza: dietro gli 85 milioni di emendamenti c’è un algoritmo che «introduce una quarta dimensione che, a seconda dell’inclinazione dell’asse, può produrre emendamenti all’infinito».
Renzi ha penato ma, nonostante le accuse e le dissociazioni anche di una parte delle minoranze del Pd, alla fine ha vinto la partita allargando la maggioranza anche ai senatori e ai deputati di centrodestra guidati da Denis Verdini, ex braccio destro di Silvio Berlusconi. I parlamentari verdiani di Ala all’inizio del 2016 hanno votato la riforma costituzionale e la fiducia al governo sulle unioni civili. Adesso, però, lo scontro è tra i democratici. L’interrogativo è: Verdini, ex grande avversario del centrosinistra, carico di pendenze giudiziarie, è o no determinante per garantire una stabile maggioranza politica a Renzi? È uno dei tanti problemi sul tavolo del giovane presidente del Consiglio che rischia di provocare una scissione nel Pd. Anche in questo caso c’è bisogno di una risposta politica a un problema politico in tempi rapidi. Il tema è il progetto renziano del Partito della nazione, cioè l’obiettivo di allargare i confini elettorali del centrosinistra. Il pericolo è lo sfarinamento del governo e del Pd.