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Politica & fiction: la speranza viene dalla Danimarca

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Sulla politica, sulle sue istituzioni in diffusa mala fama sono piombate le fiction, prima il cinema indipendente poi le serie TV. E se lo propongano o no, fanno marketing elettorale. Nelle squadre di Hillary Clinton e Donald Trump sono infatti materia di considerazione e commento. La psicologia del telespettatore è ovvio fattore di voto. L’ormai famosa, House of Cards, racconta con l’implacabile ritmo del thriller i crimini di un fantasioso e nondimeno credibile presidente degli Stati Uniti e di sua moglie, della loro assoluta mancanza di coscienza morale. Il potere vissuto come l’ultra-droga, tra onnipotenza e tànatos, tende a farsi sistema.

E’ la messa in scena di modelli estremi delle patologie che impedirebbero più che mai a governi e parlamenti di ordinare la vita pubblica in favore dell’interesse generale. E alle società euro-americane in crisi di averne una consapevole percezione, così da poter reagire con efficacia. Ma una serie danese, Borgen, rinunciando al sensazionalismo e concentrandosi sui sentimenti privati, presenta una donna che conquista il governo del paese opponendo la virtù al vizio. Un atto individuale e volontario, certo. Che nondimeno con il successo di pubblico adesso continentale, spinge anche questa speranza scandinava di salvezza nell’immaginario collettivo.

In nessuno dei due casi gli autori fanno ricorso a metafore approssimative, più o meno allusive della realtà. Siamo di fronte a una specie di metalinguaggio i cui riferimenti a situazioni politiche di specifici paesi appaiono espliciti e precisi, anche se camuffati con nomi di circostanza volutamente trasparenti. Codici di lettura che vanno ben oltre la suggestione, diventando nello scorrere della narrazione del tutto verosimili. Poiché sottintendono che le forzature della finzione, pur evidenti nei tratti dei personaggi o nella loro azione, servono a penetrare nella più profonda verità delle storie. I cui riscontri con le cronache contemporanee non mancano.

Il metodo non costituisce una novità assoluta. Teatro e narrativa degli ultimi due secoli, dal realismo visionario di Balzac al Bertold Brecht delle più forti denunce della corruzione nella vita pubblica, sono entrati a testa bassa nella politica a ogni profonda trasformazione della società. E questo per non parlare dell’antichità: da Aristofane a Cicerone e tanti altri ancora. Con la differenza che la potenza delle immagini televisive, il loro ritmo incalzante, la forza persuasiva dell’interprete che le presta il volto, superano oggi per immediatezza quella della parola scritta e s’impongono nella riflessione della platea più vasta. Quasi l’accecante illuminazione di una verità rivelata rispetto al lento processo di convincimento d’un tempo.

La gente di Copenhagen chiama Borgen il castello di Christiansborg, sede del Parlamento, della Corte Suprema e del Governo nazionale. Dunque le tre maggiori istituzioni dello stato, somma di tutti i poteri, riunite sotto il medesimo tetto. Al coperto del quale vediamo sfilare intrighi, rivalità, invidie e inganni come in qualsiasi altro luogo in cui le umane passioni vengono convocate dalla politica. E tuttavia queste perversioni non suscitano lo sgomento delle ignobili trame shakespeariane dell’anglosassone House of Cards. Ciò che non si spiega solo con l’incomparabile dimensione dei rispettivi contesti socio-economici (oltre 300 milioni di abitanti contro meno di 6).

Frank Underwood e la moglie Claire, protagonisti della serie americana, fanno del disprezzo e della manipolazione degli altri una liturgia che non tradiscono mai. Perfino nei loro sentimenti più intimi, l’amore in primo luogo, tra i due coniugi e quello d’entrambi verso gli altri, la volontà di controllo, di affermazione personale e dominio sul rapporto, prevale su ogni desiderio, non escluso quello più primario del sesso. Dissimulare è il loro modo di essere. Perfino il personaggio del presidente russo Putin, ritratto come una simbiosi tra il leggendario Rasputin e il suo Zar, ne rimane sconcertato e in qualche misura succube.

“C’è del marcio in Danimarca”, ancor oggi, forse. Ma certamente non al punto da spingere Amleto a perderci la ragione. Più probabilmente Shakespeare avrebbe rinunciato a scriverne. Lo sguardo intensissimo e affascinante della protagonista di Borgen, il primo ministro Birgitte Nyborg, che la telecamera cattura spesso in primissimo piano, è sempre trasparente. Rassicura sulle sue intenzioni. Che si scontrano con una realtà complessa, spesso contraddittoria e talvolta inaspettata, mettendone a dura prova la fermezza. Alimentata a sua volta non da una determinazione luciferina, bensì conquistata passo a passo, attraverso umanissimi dubbi e rischi.

La politica non risparmia a nessuno crudeltà e fatiche dell’incessante scontro d’interessi. Scava dentro le persone, le logora. L’ outsider Birgitte compie la meraviglia di governare maturando le proprie convinzioni al fuoco furioso della realtà quotidiana, senza lasciare che vadano in cenere i propri princìpi. E ne paga il prezzo: ferita negli affetti più cari, insidiata da un male improvviso. Mai cessano però di agire in lei i riflessi di Jante, che privilegiano azione e interessi collettivi rispetto a quelli individuali, né gli echi etici di Kierkegaard. Fino al punto di rinunciare al premierato pur di assicurare al paese un governo stabile: ”più che a me, ho pensato ai danesi…”, dice. E non s’avverte il minimo sospetto di retorica.

*Ildiavolononmuoremai.it


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