Mi guardo bene dall’intervenire sul merito della vicenda che vede in questi giorni protagonista Pino Maniaci; non sono nessuno, lo dico senza alcuna falsa modestia, per poter sostenere che sia colpevole di quanto gli viene contestato, oppure vittima, come dice, di una sorta di complotto ai suoi danni. Da tempo cerco di coltivare il dubbio: persone che ho creduto innocenti si sono poi rivelate colpevoli, e viceversa; ho imparato che è buona regola attendere i verdetti finali, leggere le sentenze, seguire lo svolgersi dei processi; aver la pazienza di ascoltare i pubblici ministeri mentre espongono le prove raccolte, e quello che hanno da dire gli avvocati della difesa. E anche così, si possono prendere cantonate.
Qui, ora, è altro il discorso che mi preme fare, ed è quello di noi giornalisti che si è sempre più dei “megafoni”. Forse lo siamo sempre stati, chissà, e solo ora qualche fetta di salame comincia a cadermi dagli occhi. Ma oggi, che per paradosso abbiamo a disposizione strumenti più raffinati, moderni, “adeguati”, mi pare si debba rimpiangere i tempi del taccuino, della biro, del gettone telefonico; perché un tempo arrivava un comunicato dove si esponeva l’accaduto: arrestato Tizio, denunciato Caio, indagato Sempronio; e ci si poteva stare: era poi il giornalista che doveva scegliere se accontentarsi della “velina” o verificare come davvero stavano le cose. Non tutti le facevano, le verifiche, ma tanti sì, e infatti si imparava a discernere firma da firma, articolo da articolo, giornale da giornale… Poi, da un po’ d’anni in qua, il “salto”: i vari corpi di polizia si sono affinati, ogni operazione, si tratti di un finto invalido o dell’incasso di una mazzetta, non basta più il comunicato diramato via agenzia; e neppure il verbale d’interrogatorio fatto pervenire neppure tanto “aumm aumm”, alla faccia di ogni secretazione o riservatezza.
Ora arrivano le immagini, orgogliosamente “timbrate” Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, a corredo di “operazioni” che sono ancora nella loro fase preliminare (cioè neppure una sentenza di primo grado, neppure il pronunciamento di un Giudice per le Indagini Preliminari o un Giudice per l’Udienza Preliminare), e i “protagonisti” di questi filmati vengono dati in pasto alla pubblica opinione in una gara a chi trasmette per primo.
Mi limito a due soli casi, che hanno riempito le pagine di tutti i giornali: per la certamente orribile storia del “palazzo” di Caivano, in punto di diritto e di sostanza, è giusto che io abbia letto il verbale integrale di un piccolo testimone che racconta cose gravissime se davvero sono accadute (e posso credere lo siano), ma che ancora non sono state certificate da nessuna sentenza? E per quel che riguarda Maniaci, è normale la diffusione urbi et orbi di quegli spezzoni?
Lo chiedo ai miei colleghi: sono strano io che penso che i carabinieri, ma anche i poliziotti e i finanzieri e chiunque indossa una divisa, debba “obbedir tacendo”, e nella fattispecie fare il loro benemerito e sacrosanto lavoro di perseguire i criminali, raccogliendo prove, preoccupandosi che siano solide e reggano in fase di processo, e non rientri nei loro compiti e doveri quello di creare “un clima”, offrendo immagini e “sonori” di supporto?
Sono strano io che del diritto romano ricordo la formula “in dubio pro reo”, e penso che si sia innocenti fino a quando non si viene dichiarati colpevoli? Insomma è normale o sono strano io che ho un senso di ripulsa quando accendo una TV o un computer e vedo notiziari confezionati per buona parte con immagini e “sonori” forniti dalle varie forze di polizia sulle quali il giornalista evidentemente presta un atto di fiducia, non potendo verificare nulla di quanto gli viene dato? E sono, per finire, strano io che ogni volta sobbalzo, quando sento un collega chiedere in modo esplicito, a qualche addetto alle pubbliche relazioni: “mandami un po’ le immagini che avete girato per farci sopra un pezzo…”?
Chiedo scusa, i miei, evidentemente, sono discorsi da dinosauro: di uno che ancora si compera i giornali, li ritaglia, e conserva i ritagli in cartellina. Però, come dire, siamo sicuri che quello che stiamo facendo sia “comunicazione”? Certo, è più comodo, meno dispendioso, più rapido. Però da dinosauro qual sono, confesso che ho molti dubbi e tante perplessità su questo modo di fare “informazione” e faccio sempre più fatica a chiamarlo “giornalismo”.