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Consiglio italiano rifugiati: “Ogni parola inappropriata è un macigno”

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Il Consiglio italiano per i rifugiati entra a far parte di Carta di Roma. La direttrice Fiorella Rathaus racconta gli obiettivi dell’organizzazione

Di Piera Mastantuono

Nato nel 1990 sotto il patrocinio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati, anno in cui cadde la cosiddetta riserva geografica secondo la quale i rifugiati non dovevano provenire solo dall’Europa ma da tutto il mondo, il Cir si occupa di diritto d’asilo ed è un’organizzazione laica e indipendente.

Rimarca l’importanza di lavorare contro gli stereotipi e il sensazionalismo Fiorella Rathaus, direttrice del Consiglio italiano per i rifugiati, nello spiegarci perché l’organizzazione ha aderito alla rete dell’Associazione Carta di Roma.

Rathaus

Fiorella Rathaus, direttrice del Cir.

Quali le principali sfide poste dal flusso di rifugiati che cercano protezione in Europa?

«Le sfide sono numerose. Innanzitutto l’accordo con la Turchia che mette in crisi la nozione stessa di diritto, violandolo. E vi è poi la situazione italiana degli hotspot, dove troviamo una mancata consapevolezza e rispetto dei diritti umani, in ottemperanza alla Convenzione di Ginevra. Vi è inoltre il grande problema di Schengen, la cui paventata chiusura alimenta sicuramente un clima di tensione. Il fatto che nel 2012, appena 4 anni fa, l’Europa sia stata premiata con il premio Nobel per la pace sembra così distante dalla realtà attuale».

Come rispondere a tutto ciò?

«Ciascuno deve fare innanzitutto la sua parte. Tra le diverse azioni stiamo cercando di realizzare una mostra fotografica che racconti le storie dei rifugiati. E con il medesimo scopo di narrazione abbiamo promosso progetti di teatro in particolare per le persone vittime di tortura. Tutto quello che riguarda il parlare a voce alta con media, strumenti, occasioni che aiutino una raccolta di pubblico ampio, che diventa un momento di confronto è quello che può fare la differenza».

Molti media, nazionali ed internazionali, etichettano il fenomeno in corso come “crisi rifugiati”. È una definizione appropriata?

«Da quest’estate a oggi i cambiamenti sono stati numerosi, complice anche la vicenda di Colonia e l’equazione che si è trasmessa tra rifugiati e terrorismo. Walter Whitman, giornalista statunitense, ha evidenziato come gli stereotipi abbiamo un ruolo predittivo. Riferito agli stranieri ciò significa che se essi vengono raccontati in maniera negativa, tenderanno ad adeguarsi, nell’immaginario, allo stereotipo stesso. È come se, delineando una persona in maniera negativa, essa vi si adeguerà, suo malgrado. È necessario perciò avviare nuove forme di narrazione. Si tende a definire emergenza o crisi tutto ciò che non si è in grado di gestire. Il fatto stesso di parlare di crisi è infatti un modo di dare una giudizio di valore, foriero di un comportamento non positivo. Contro l’emergenza ci si corazza e difende».

Quali ragioni hanno spinto il Cir ad aderire alla Carta di Roma?

«Mi sembra che, in fondo, ci siamo sempre stati! Si tratta di portare avanti un lavoro in sinergia, perché ogni parola inappropriata è un macigno. Ci sono molti luoghi comuni da sfatare e qui la stampa ha un ruolo fondamentale. Investire sull’integrazione oggi vuol dire farlo sulla società futura».

Da cartadiroma


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