Alle ore 21 di un insolitamente afoso 6 maggio 1976, un violento terremoto di magnitudo 6.4 scala Richter, con un movimento tellurico durato ben 50 secondi, devastò il Friuli. L’epicentro a nord di Udine. Altre scosse seguirono poi fino a metà del mese di settembre. Alla fine si contarono 989 vittime, 18mila case distrutte, 100 mila sfollati. Due le province colpite: in primo luogo Udine e poi Pordenone nella sua parte orientale, pedemontana, collocata alla destra del fiume Tagliamento. Quello che vi riproponiamo qui è il reportage realizzato in queste zone l’8 maggio 1976 da Roberto Reale all’epoca dei fatti collaboratore freelance del periodico pordenonese “Il Momento”
IL GIORNO DOPO
di Roberto Reale
Provincia di Pordenone, mandamento di Spilimbergo. In questa zona ci sono dei centri duramente colpiti dal terremoto del 6 maggio. I più importanti sulla mappa sono i comuni di Pinzano, Vito D’Asio, Castelnuovo del Friuli. Ma forse parlare di comuni è improprio perché la situazione cambia di frazione in frazione. Ci sono località sconosciute che hanno subito ingenti perdite. Altre invece hanno quasi inspiegabilmente retto alla violenza del sisma.
A Pordenone fino dalla notte fra il 6 e il 7 maggio cominciano a a arrivare le notizie, le prime informazioni: partono subito le squadre di soccorso. A ruota li seguono quelli che hanno parenti e amici nelle zone colpite. In città sembra di essere nelle retrovie di una grande battaglia. Alle comunicazioni che giungono per radio si accompagnano già il 7 sera le testimonianze di quanti si sono recati sul posto. Alcune sono allucinanti: tutto distrutto, vittime a decine, paura e sconforto. Costante in tutti l’ammirazione per il comportamento dei sinistrati, per il loro contegno, per il loro non abbandonarsi alla rabbia o alla disperazione, per la loro continua, pressante volontà di reagire.
“Questa gente è abituata a soffrire” hanno commentato in televisione. E’ un’osservazione vera che però a molti non è piaciuta perché ambigua. Non ci si abitua a soffrire, il dolore è sempre inaccettabile. No, la reazione della gente colpita non è abitudine pura e semplice. E’ invece un modo di vivere, di essere, di far fronte alla paura, allo sconforto, con l’impegno, con la determinazione di chi è conscio che accasciarsi non serve a niente. Né ai vivi, né ai morti.
L’8 parto anch’io, insieme a un gruppo di colleghi, per la zona di Spilimbergo. Arriviamo a Valeriano, frazione di Pinzano al Tagliamento, intorno alle 14 e 30. Qui le prime cose che si vedono sono il campo sportivo pieno di tende e la chiesa, situata su un piccolo rilievo in una posizione caratteristica, eccezionalmente bella. Solo che sarebbe più giusto dire che vediamo quel che resta della chiesa. Il piccolo campanile appare diroccato e pericolante e l’edificio principale è sventrato. Per terra le macerie costituiscono quello che resta di due pareti. Le altre sono crepate in più punti. Particolarmente sulla destra c’è una fessura che non fa sperare in nulla di buono. E’ questa la famosa chiesetta di Valeriano. All’interno ci sono affreschi delPordenone molto importanti, un bene inestimabile. Sarà possibile salvarla? Oppure alla prima pioggia le brecce si allagheranno in modo irreparabile?
Ma si aggiunge un altro interrogativo più profondo. Vicino a noi c’è una famiglia che sta caricando in un carretto quello che rimane di un negozio di alimentari. La struttura della loro casa non esiste più: è un miracolo che stia ancora in piedi. L’interrogativo è questo: è giusto preoccuparsi del patrimonio artistico quando la gente vive un dramma così intenso? Una risposta precisa non c’è. La chiesetta va salvata, è indubbio che occorre fare in fretta e bene. Ma non è il problema centrale oggi. Per questo non ci fermiamo a lungo in quella piazza. Mentre ci spostiamo guardiamo dentro i cortili delle case. E’ strano come questi edifici sulla strada siano in piedi e dentro siano invece crollati. Eppure è un dato costante. Che farà questa gente? Per un po’ dormirà nelle tende, ma poi? Dove si stabilirà?
Ci spostiamo a Pinzano dove la sciagura ha dimensioni ben peggiori. Si respira aria di tragedia. Accanto a due piccole casette, minate entrambe alla base ma pur sempre in piedi, c’è un ammasso di macerie. Alto diversi metri, colpisce subito la vista. Quell’ammasso era un condominio di tre piani. Era stato costruito nel 1960, ci abitavano sei famiglie. Nel tragico crollo sei persone sono decedute sotto i calcinacci. Le hanno tirate fuori una a una. Vicino alle macerie c’è un giovane a torso nudo, con un fazzoletto annodato in testa. Si vede che è tutto il giorno che lavora. Sta parlando con dei parenti di quando da sotto ha tirato fuori il padre. Delle sei vittime è stato l’ultimo a essere ritrovato suo padre.
Il giovane è calmo. Ma è visibilmente provato. Eppure continua a lavorare. Di fronte a un comportamento simile che indica la capacità di tenere dentro di sé tutto il dolore non ce la sentiamo di rompere questa intimità. Le domande sono inutili, superflue, fanno solo male. Ci allontaniamo mentre in cielo un elicottero volteggia sempre più vicino a terra. Delle persone stanno lavorando per spostare i fili traballanti della luce. Dal basso li osserva un gruppo di spettatori. Ci fermiamo per avere delle informazioni. Quello che parla più volentieri è abbastanza anziano. Ha le spalle incassate, provate dalla fatica. Presumo che abbia fatto il muratore. Gli chiediamo del condominio crollato: come può essere successa una cosa del genere?
Non fa in tempo a risponderci. Alcune macchine della polizia si avvicinano a buona andatura. Ma chi c’è a bordo? Solo ora ci accorgiamo che l’elicottero non volteggia più. E’ sceso. Deve trattarsi di qualche personaggio importante. Così nella seconda “Giulia” della polizia riconosciamo due facce importanti: Moro e Cossiga, il Presidente del Consiglio e il Ministro degli Interni. La gente non fa loro neanche caso, i più non se ne accorgono. “Se si tratta di un giro d’ufficio, di una visita d’obbligo potevano fare anche a meno di venire” commenta qualcuno. Dopo tre o quattro minuti dal primo passaggio ecco che le auto ripassano tornando indietro. D’accordo, nessuno dava molta importanza al fatto che si fossero fermati a stringere qualche mano, a dare del consigli banali. Ma avrebbero potuto almeno fattivamente interessarsi ai problemi del paese dato che erano arrivati fino a Pinzano del quale, si presume, mai avrebbero conosciuto l’esistenza se non ci fosse stato il terremoto.
Quando Moro e Cossiga risalgono in elicottero noi finalmente cerchiamo di sapere di più su quel maledetto condominio. E ricominciamo: perché è caduto quando le casette vicine hanno retto? Ci risponde l’uomo che ho individuato come ex muratore. “ Dopo il crollo” ci dice “abbiamo cercato di spostare la massa di detriti per estrarre i corpi. Abbiamo perciò provato a spostare i piloni di cemento armato franati trainandoli per i ferri. E che è successo? “E’ successo che il ferro è venuto via, mentre il presunto cemento si sgretolava. Se era cemento quello…”.
Dei nodi allora vengono al pettine. Le case non cadono proprio del tutto casualmente, non è solo la sorte a determinare il loro destino, ma anche dei particolari come questo che ci devono far riflettere profondamente. “Cosa avete intenzione di fare adesso?” chiedo. “Ci sarà un’inchiesta” rispondono aggiungendo che sanno come vanno a finire le inchieste. Ci congediamo così, mentre un vecchio a bassa voce commenta: “Purché queste cose non accadano mai più. Già questa sarebbe giustizia”.
Da Pinzano ci spostiamo verso la Val d’Arzino. Il caldo è insopportabile. Raggiungiamo Casiacco frazione di Vito d’Asio. Notiamo come da zona a zona gli effetti del sisma siano diversi. Ci deve essere un fattore geologico. L’onda si è propagata con diversa intensità a seconda del terreno. Dove c’era della roccia ha scosso di più gli edifici che non altrove. Ma questa sommaria analisi può bastare?
Casiacco è ora un gruppo di case pericolanti, inagibili, da abbattere. Parliamo con la gente. Alcuni abitanti sono andati a lavorare in un centro vicino che dista due tre chilometri, Forgaria un nome identificato da tutti come simbolo di rovina. E’ nella destra Tagliamento ma in provincia di Udine. Raggiungerla non è possibile o quasi: ci sono colonne di macchine che si perdono nella montagna. Sono lunghe qualche chilometro. Non ci andiamo anche perché li si lavora per estrarre i corpi dalla macerie, forse c’è gente ancora viva. E’ inutile andare a affastellare una zona intasata. “Ci sono in fila un’ottantina di bare” ci dicono per darci il senso di quello che è successo. Ma Forgaria ci resta nella mente. Qui a Casiacco c’è ancora vita, li, ci assicurano, domina la morte. Lo verifichiamo poco dopo quando ci muoviamo verso Vito d’Asio. Dopo tutta una serie di tornanti si apre davanti a noi un panorama molto ampio. La giornata è limpida e si vede molto bene in basso. Ma cosa c’è in basso? Oltre al torrente Arzino, c’è la gente, ci sono i paesi. Fra questi Forgaria. Da qui la vediamo senza dare fastidio a nessuno. Con un potente teleobiettivo possiamo fissarne le rovine. Quello che si vede lo sintetizziamo così: praticamente il centro del paese non esiste più, non solo sono crollate le case. Sono crollate in modo tale che l’intero paese è diventato un ammasso di rovine quasi indistinto. Si capisce allora perché le vittime sono state tante, perché sia così difficile estrarle dalle macerie..
A Vito d’Asio la situazione è diversa. Tutte le case, tranne due o tre ( le più brutte, le meno caratteristiche, osserviamo) sono lesionate. Portano un segno fatto dai militari: una croce di colore rosso. Vuol dire che le abbatteranno, è solo questione di tempo. Le mura delle abitazioni pendono paurosamente. Alcuni ragazzi con delle maschere di fortuna lavorano fra le macerie. Sfidano la morte per ricavarne qualcosa e passarlo a quelli che più in basso stanno caricando sulle macchine i materassi, i letti, tutto il salvabile. Vito d’Asio è un paese angusto, stretto, scosceso. Era molto bello, uno dei posti più caratteristici. E’ ovvio che i soccorsi facciano fatica a arrivare anche perché non si saprebbe dove farli sistemare. Eppure stupisce come qui non ci siano praticamente militari mentre Casiacco è intasata di mezzi e divise dell’esercito. Solo una pattuglia di carabinieri coordina il traffico e dà una mano. Per il resto la gente fa tutto da sé.
Emerge un altro problema: quello delle piccole frazioni, dei casolari e delle borgate isolate. Soccorsi lì non ne arrivano. Per il momento sono concentrati nei centri maggiori. Ma anche lì ci sono il dramma, la paura, i bisogni materiali impellenti. Quand’è che si riuscirà a coordinare un’iniziativa in queste zone? D’accordo, i casolari isolati sono difficili da raggiungere ma basterebbe l’opera di ricognizione di alcuni elicotteri per facilitare di molto il lavoro. Fare presto è un dovere.
Per noi è arrivato il momento di fare un bilancio della situazione. Lo facciamo nell’ultima sosta del nostro “viaggio” in uno spazio vicino Castelnuovo. Abbiamo visto quasi tutte le zone colpite della provincia di Pordenone. Dappertutto rovine e danni incalcolabili. Il numero delle vittime è minore che nell’udinese, oltre che per la maggiore lontananza dall’epicentro, forse perché molti dei paesi disastrati erano già spopolati: nella case non c’era nessuno quando sono crollate. Eppure anche da questa parte del Tagliamento i morti sono stati tanti, sono moltissimi i senza tetto. Sarà questo il problema di domani, del dopo tende, di quando cioè le tende non basteranno più e si dovrà sistemare decentemente questa gente. In queste prime giornate si tratta di dare un contributo di solidarietà. Tutti possono farlo. Ma poi? Poi dovranno essere fatte delle scelte, una volta passato il momento del contributo iniziale spontaneo, per promuovere uno sforzo di ricostruzione a favore delle popolazioni colpite che non vanno lasciate sole coi loro problemi. Sicuramente dopo il momento del primo soccorso molti nodi verranno al pettine. Si riuscirà a scioglierli positivamente?