1° maggio e la mente corre subito alle radici storiche di questa festa, all’importanza che essa ebbe nei decenni precedenti, al ruolo sociale di una celebrazione che non ha nulla di retorico bensì ispira e trova la sua ragione di esistere nel primo articolo della nostra Costituzione, incarnandone i princìpi, i valori e gli ideali.
1° maggio e ciò che significa attualmente, ai tempi del non lavoro, della dignità perduta, dei diritti calpestati, delle speranze tradite, mentre anche la Francia si mobilita e scende in piazza contro la “Loi travail” presentata dai pessimi Hollande e Valls, cantori anacronistici del liberismo selvaggio che tanto ammaliò una parte della sinistra nei ruggenti anni Novanta, fino a smarrire la propria identità e a sprofondare nel baratro attuale.
1° maggio e i drammatici dati dell’INAIL sull’aumento delle morti sul lavoro: tragedia dimenticata o, peggio ancora, mascherata dietro ipocrite definizioni come quella di “morti bianche”, quando, in realtà, di bianco, di pulito e di innocente dietro questi drammi che distruggono intere famiglie non c’è proprio nulla e spesso si celano, al contrario, solo sporcizia, incuria e mancanza di rispetto per la vita umana.
1° maggio e la necessita di fermarsi a riflettere sul nuovo statuto del mondo che è andato affermandosi negli ultimi trent’anni, con la scomparsa dell’idea di comunità e l’avanzata dell’individualismo sfrenato, dell’egoismo elevato a virtù e della considerazione dei più deboli come vite di scarto, sacrificabili in nome del progresso, meri ingranaggi di una macchina infernale che non può e non deve mai fermarsi.
1° maggio e la necessità di rivolgere un pensiero a quanti un lavoro non ce l’hanno, a quanti lo cercano ma non lo trovano, a quanti hanno smesso persino di cercarlo, a quanti si sono arresi, a quanti subiscono continui soprusi in ufficio o in azienda, alle donne che non sono state assunte per prevenire l’eventualità che rimanessero incinta, alle donne che, a parità di lavoro e magari con una qualifica superiore rispetto a quella dei colleghi maschi, percepiscono uno stipendio inferiore, ai giovani laureati e preparati che sono costretti a svolgere lavori umilianti, al sottoutilizzo delle risorse umane che tanti danni arreca alla nostra società, a un modello di crescita e di sviluppo disumano e finalmente stigmatizzato da un pontefice fuori dagli schemi, nel silenzio assordante di una politica inadeguata e assente; in poche parole, sarebbe il caso di guardarci dentro, di osservare attentamente la nostra società e di fare i conti con le innumerevoli ingiustizie che la affliggono.
1° maggio e il bisogno di fratellanza che si avverte sempre più forte in questo tempo senza storia, in cui l’unico luogo dove sembra sopravvivere un minimo senso di comunità sono i sociale network, senza rendersi conto che quella è una comunità virtuale, che va bene per uno scambio di opinioni, che può essere anche molto utile ma non potrà mai sostituire la meraviglia di guardarsi negli occhi e prendersi per mano di cui soprattutto le nuove generazioni sanno di non poter fare a meno.
1° maggio e le menzogne, i dati gonfiati, gli eccessi di ottimismo, le ostentazioni e le prese in giro che umiliano chi non ce la fa, chi dalla ripresa si sente escluso e, per questo, cova in silenzio una rabbia pericolosa.
1° maggio e la necessità di rendersi conto che populismi, formazioni xenofobe, demagoghi e ciarlatani potranno tornare alle dimensioni elettorali che competono loro solo quando avremo accantonato questo modello di crescita iniquo e disumanizzante e abbracciato nuovamente quei princìpi keynesiani alla base del Piano Beveridge e delle politiche economiche e industriali del dopoguerra, le quali favorirono l’affermarsi della democrazia dei ceti medi e diedero vita a quello che gli studiosi definiscono il “trentennio glorioso” (1945-1975).
1° maggio e l’attenzione rivolta ai tanti paesi arretrati in cui i lavoratori non godono di nessun diritto, condizionando implicitamente e pesantemente anche noi, in quanto è sempre più diffusa, fra le classi dominanti, la tentazione di cinesizzare il mondo del lavoro, mettendo a repentaglio le conquiste sociali e sindacali ottenute dalla civiltà europea in decenni di lotte e a costo di sangue, sofferenze e autentiche persecuzioni.
1° maggio e la necessità impellente di accantonare l’idolo del mercato e della ricchezza a tutti i costi per tornare dopo tre decenni a una dimensione più vivibile, alla portata di tutti e nella quale nessuno venga lasciato indietro, legando nuovamente il concetto di lavoro al concetto di dignità e sconfiggendo il pensiero unico dominante che si domanda, con un cinismo degno di miglior causa, cosa vogliano quei milioni di persone che, oltre al pane, rivendicano giustamente anche le rose.
1° maggio e il bisogno di rivendicare con forza l’unicità della persona, la sua centralità, il suo ruolo e la straordinaria funzione del lavoro come fonte di democrazia, di benessere, di armonia, di salute e di lotta contro disuguaglianze divenute ormai insopportabili.
1° maggio e l’idea che dietro il lavoratore non c’è un robot ma un essere umano, che la produttività è importante ma non è tutto, che il PIL, come asseriva quasi mezzo secolo fa Bob Kennedy, non ci dice se possiamo essere orgogliosi della nostra società, che lo svago, la cultura, l’arte e la bellezza non sono valori meno nobili e, in particolare, che questo cattivismo feroce e spregiudicato ci sta rendendo dei lupi affamati della carne dei nostri simili, in una guerra tra poveri dalla quale non possiamo che uscire tutti sconfitti, oltre che più poveri e più miseri.
1° maggio e quella grande sintesi che fu alla base dell’aggregazione ulivista, con la difesa, al contempo, dei diritti dei singoli e dei diritti della comunità, con la concezione di un nuovo rapporto fra la mente e il braccio, fra l’operaio e l’imprenditore, fra la macchina e l’uomo e, più che mai, con la riscoperta di quel pensiero olivettiano troppo a lungo dimenticato o considerato utopistico.
1° maggio e ciò che non siamo, ciò che dovremmo essere, ciò che vorremmo essere, ciò che saremo e ciò che abbiamo in mente per l’avvenire delle nuove generazioni.
1° maggio e la necessità di recuperare il senso profondo di una festa che racchiude le basi del nostro stare insieme, senza le quali non può esistere alcun governo, alcuna prospettiva, alcun domani ma soltanto un insieme diviso, caotico e furente di rancori inespressi e pronti ad esplodere, come micce, al grido del primo capopopolo che riesce ad alzare la voce più degli altri.