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L’invalicabile muro di Dublino

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Le contraddizioni e le inefficienze del meccanismo previsto dal Regolamento Dublino. Le norme dell’Ue in materia di diritto d’asilo sono del tutto inadeguate a fronteggiare la crisi in corso e a garantire accoglienza e tutela a chi fugge in cerca di protezione.

di Maria Paola Nanni (Centro studi e ricerche Idos)

L’eccezionale afflusso di persone in fuga, in cerca di sicurezza e protezione, che preme ai confini dell’Unione europea e attraversa i suoi territori, lungo rotte continuamente ridefinite dagli stessi indirizzi di governo dei paesi interessati (sbarrate da reti metalliche e filo spinato e poi ri-avviate da passaggi che ora si aprono ora si chiudono, sulla falsariga dei delicati equilibri politici dell’eurozona), sta segnando un’epoca, la nostra. Ma di che segno si tratta?

Senza dubbio, siamo di fronte a uno scenario “inedito”, tanto in termini qualitativi che quantitativi, che chiama le istituzioni nazionali e comunitarie a una sfida che, però, si trascina ormai da anni, spostandosi nei suoi risvolti più drammatici da una frontiera all’altra, da un muro all’altro, da Lampedusa a Ventimiglia, da Lesbo a Idomeni. E questo senza che nel frattempo si siano sviluppate risposte adeguate ed efficaci, a partire dal piano normativo e dalla sua fondamentale funzione di regolazione.

Le norme dell’Unione sul diritto d’asilo hanno infatti evidenziato, fin dall’inizio, tutti i loro limiti rispetto alla gestione della crisi in corso. E gli ultimi scenari prospettati, che indicano nella cooperazione col governo di Ankara il fulcro di una “nuova” strategia di gestione, continuano ad eludere il nodo principale: garantire un’accoglienza dignitosa e adeguate misure di tutela a chi fugge in cerca di sicurezza e protezione. Un compito davanti al quale l’Europa si è scoperta debole e divisa, incapace di convergere su strumenti di gestione equi ed efficaci.

Ma andiamo con ordine e facciamo un passo indietro. Prima dei negoziati con la Turchia c’è stato l’accordo sul “ricollocamento” di 160mila rifugiati dalla Grecia, l’Italia e l’Ungheria (ma a distanza di sei mesi il numero dei ricollocati non arriva a mille) e, ancor prima, a giustificare un tale passaggio, c’è il Regolamento Dublino III: il principale strumento tramite il quale l’Unione europea regola il diritto d’asilo sul suo territorio.

E cosa dice il Regolamento Dublino? Dice, in sostanza, che competente per l’esame di una domanda d’asilo è il primo stato dell’Unione in cui il richiedente mette piede e in cui viene identificato tramite la rilevazione delle impronte. Quello è il paese in cui bisogna fermarsi e in cui la domanda verrà vagliata, il paese in cui stabilirsi e tentare di ricostruire la propria vita. Non importa se ci sono fratelli, sorelle, mariti, mogli, figli o genitori altrove, in un altro stato dell’Unione: quella è la meta ultima del viaggio.

Non stupisce quindi che il termine fingerprint abbia finito per rappresentare una sorta di chiave di volta nella capacità di comprensione e di scelta di un qualsiasi richiedente asilo: impronte, chi le lascia è perduto, bloccato, non può più scegliere dove provare a ricominciare a vivere, dove sentirsi finalmente e definitivamente al sicuro. E non stupiscono nemmeno i reiterati tentativi di aggirare l’identificazione prima di arrivare alla “fine” del viaggio: una meta stabilita, che spesso si identifica con la Germania, la Svezia o un altro paese dell’area centro-settentrionale del continente dove si può contare sul sostegno di reti parentali e amicali già strutturate, oltre che su un più solido sistema di accoglienza. Così come non stupisce che a continuare il viaggio siano anche quelli che le impronte le hanno lasciate, magari forzatamente, ma poi vanno oltre lo stesso, cercando di aggirare anche il “muro di Dublino”. Un muro che, però, solo apparentemente ci si lascia alle spalle.

Ed è così che ci si ritrova ingabbiati in una definizione, quella di dubliners (o “dublinati”), che niente ha a che fare con la gente di Dublino raccontata da Joyce, identificando tutti quei migranti forzati che avviano una procedura di protezione in uno stato dell’Unione diverso da quello di primo ingresso e che, in applicazione del meccanismo sopra richiamato, vengono lì rinviati. Un passaggio che può anche avvenire dopo che, non senza fatica, si sono già avviati impegnativi (e dispendiosi) processi di inclusione. Un nuovo sradicamento che può finire per spezzare delicati e per niente scontati percorsi di ricostruzione. Un’ulteriore frattura che si riflette in un più elevato carico di complessità anche rispetto alle condizioni di accoglienza e alla procedura per il riconoscimento di una forma di protezione (come dire che a traballare sono le stesse garanzie dei richiedenti asilo a ricevere un trattamento equo, efficiente ed efficace).

È il caso di tutti quei “profughi” arrivati in Italia, e qui identificati, che poi riescono a raggiungere Germania, Svezia, Olanda, Francia, ma che vengono costretti a tornare indietro (in certi casi passando per la detenzione amministrativa): è sulle loro sorti che si dispiegano, quasi emblematicamente, tutte le contraddizioni e le inefficienze del meccanismo Dublino, che ne condiziona fortemente i percorsi, a volte in senso definitivo.

Eloquente, in questo quadro, è la situazione di chi, prima del trasferimento, ha già goduto di una qualche forma di accoglienza: condizione che può escludere dall’accesso al circuito istituzionale anche se si appartiene a categorie vulnerabili. Se si deve formalizzare la domanda di protezione una seconda volta, in altri termini, non è raro che ci si ritrovi per strada, costretti a bivaccare nelle sale aeroportuali o a cercare sostegno tramite reti informali, con in mano solo un invito a presentarsi presso la questura. Manca un piano di dettaglio, la burocrazia è lenta e la sostanziale mancanza di orientamento può lasciare il richiedente nell’“incapacità” di esercitare il proprio diritto alla riattivazione della procedura e, di riflesso, il possibile inserimento nel circuito dell’accoglienza. Si delineano così percorsi frastagliati, a volte ciechi, incoerenti e quantomeno poco aderenti all’obiettivo cardine di restituire dignità, protezione e sicurezza a chi ha già perso tutto.

Si parla da tempo di un diritto d’asilo europeo che svincoli dall’obbligo di iniziare e concludere la procedura nel primo paese dell’Unione toccato. Intanto, però, i dubliners continuano a subire la detenzione amministrativa, la separazione dalle famiglie, il vuoto d’accoglienza e si continua a fuggire non solo dai conflitti, ma anche dall’identificazione.

Oltre i muri di reti e filo spinato, un’altra barriera continua a bloccare la strada verso la ricostruzione di se stessi.

(pubblicato su Confronti di aprile 2016)

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