“Quando ho visto Ilaria era ferita ma era ancora viva. Chiedeva: aiuto, per favore”. L’aula trema alle parole pronunciate da Ali Mohamed Gadid, uno dei testimoni somali ascoltati dalla Corte d’Appello di Perugia [5 aprile n. d. r.], per la revisione della condanna ad Hashi Oman Hassan, da 17 anni in carcere e presente in aula dall’inizio alla fine. Hashi è stato condannato nel 2002 per l’omicidio della giornalista Alpi e dell’operatore Hrovatin. Oltre a Gadid, anche gli altri teste somali ascoltati ieri e presenti durante l’attentato del 20 marzo 1994 a Mogadiscio, hanno confermato l’assenza di Hashi in quel momento.
Cassini, i testimoni inaffidabili e quelli che “finiranno male”. La Corte ha sentito anche l’ex ambasciatore Giuseppe Cassini che ha ammesso di non ricordare molti fatti, a causa del tempo trascorso. L’ambasciatore ha tenuto però a precisare che, quando fu mandato in Somalia dall’allora vice presidente del Consiglio Walter Veltroni, era solo un esecutore. L’obiettivo del viaggio era di trattare con la comunità somala per una questione legata agli abusi dei militari italiani. Inoltre, doveva indagare sul responsabile dell’omicidio dei giornalisti. Attraverso un funzionario dell’Unione europea, Ahmed Washington, riesce a parlare e condurre in Italia Gelle che avrebbe saputo indicare il responsabile. Gelle, il super testimone che disse di trovarsi sul luogo del delitto testimonierà contro Hashi per poi ammettere di aver detto il falso. Questa dichiarazione verrà resa nota da Chiara Cazzaniga, inviata di Chi l’ha visto?; grazie alle insistenze della trasmissione di Rai3 e della mamma di Ilaria, Luciana Alpi, la Procura di Roma ha raccolto la confessione di Gelle tramite rogatoria internazionale.
Cassini ha riferito in aula che Abdi, l’altro testimone che incolpò Hashi nonché autista di Alpi e Hrovatin, sarebbe stata “una persona inaffidabile perché è bantu”. Però fu Cassini a portare in Italia Abdi come testimone.
Abdi, ricorda in aula il giornalista Massimo Alberizzi, era armato. La pistola gliel’aveva data proprio lui “perché a Mogadiscio si moriva per un nonnulla”. Dato che “spesso la macchina veniva circondata da ragazzini la pistola poteva essere mostrata per spaventarli senza che venisse usata” così da evitare di rimanere bloccati in mezzo alla strada e “diventare “bersaglio dei cecchini”. Secondo il giornalista, “quella pistola non fu mai usata”, almeno non in sua presenza.
Torniamo a Cassini. L’avvocato della difesa di Hashi, Natale Caputo, ha chiesto all’ex ambasciatore di spiegare “un fatto messo in evidenza dai giornalisti”: una richiesta di denaro del 1997, da parte dello stesso Cassini al Ministero dell’Interno. 3-5 mila dollari per andare in Somalia e recuperare il testimone. Il riferimento, anche se indiretto, potrebbe essere al recente articolo di Andrea Palladino sul fattoquotidiano.it. che ricostruisce l’intera vicenda. La reazione di Cassini è sconcertante: “quelli che sostengono questo fatto finiranno male”. Palladino, presente in aula e intervistato da Articolo21 pochi minuti dopo l’affermazione dell’ambasciatore, riferisce di aver semplicemente letto i documenti della Commissione d’inchiesta sul caso Alpi-Hrovatin recentemente desecretati e pubblicati on line. Nessun timore dunque da parte del giornalista.
L’ex ambasciatore ha detto anche che le affermazioni di Gelle riguardo il fatto di essere stato pagato per testimoniare sono “penose”. Anche Gelle era stato portato come testimone contro Hashi da Cassini.
La telefonata con Gelle. La tensione in aula è palpabile: a parlare è Aden Sabrie, giornalista somalo della Bbc, che riporta il contenuto della conversazione telefonica registrata avuta con un uomo che si è presentato come Gelle. Dopo il servizio di Sabrie nel 2002, in cui veniva annunciato l’ergastolo per Hashi, Gelle avrebbe confessato al giornalista di aver testimoniato il falso pur di fuggire dalla Somalia: «le autorità italiane cercavano un colpevole e il mio obiettivo era quello di andare in Italia» avrebbe detto Gelle al telefono. Riferisce Sabrie, che Gelle avrebbe indicato Hashi come responsabile perché il suo nome compariva tra quelli dei 98 civili somali torturati dai militari italiani in quegli anni. Hashi quindi poteva essere facilmente portato in Italia, con la scusa di un risarcimento che gli spettava. Invece il “risarcimento” lo avrebbe avuto Gelle: sempre al giornalista ha detto anche che la sua testimonianza è stata pilotata e che venne pagato. Perché durante il primo processo Gelle venne ritenuto affidabile? Una prima, parziale risposta risiede in un errore commesso dal Commissario dei Carabinieri che in qualità di perito confrontò due fotografie, riscontrando la coincidenza tra il volto di Gelle e quello di un uomo che si trovava sul luogo dell’attentato e che quindi poteva in effetti aver visto l’accaduto. Peccato che il Commissario ha poi riconosciuto, e ieri lo ha ripetuto in aula, di essersi sbagliato. Le due foto ritraggono persone diverse: non era Gelle a trovarsi sul luogo del delitto ma qualcuno che gli somigliava. L’avvocato Antonino Moriconi che ha sempre difeso Hashi e che all’epoca fece notare al perito che la coincidenza tra le due persone non c’era, ieri ha chiesto al Commissario di guardare in faccia l’uomo, arrivato a Perugia dalla Somalia, che “confuse” con Gelle.
Le prove dibattimentali sembrano tutte a favore di Hashi: non era presente quando sono stati uccisi Ilaria e Hrovatin; non c’era Gelle ed entrambe le testimonianze contro di lui non sono più credibili. Neanche Cassini ci crede più. E questa verità, che diventa sempre più limpida, lascia il posto alla torbida consapevolezza che dopo 22 anni, manca il vero responsabile dell’omicidio di Alpi e Hrovatin.