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Regeni, le verità di Repubblica ignorate dalla Procura

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Nel giorno in cui è arrivata in Italia la delegazione dall’Egitto, composta da magistrati e inquirenti coinvolti nell’indagine sulla morte di Giulio Regeni, emergono nuovi particolari grazie all’inchiesta giornalistica di Repubblica.
Carlo Bonini, che segue dall’inizio la vicenda del rapimento e dell’uccisione del giovane ricercatore friulano, ha raccontato quella che secondo una fonte anonima è la verità sul delitto.
L’uomo, che si dice appartenente alla polizia segreta egiziana, ha inviato una mail al quotidiano italiano attraverso cui spiega ‘chi’ e come avrebbe ucciso Giulio Regeni.
Storia, secondo Bonini, credibile visto che propone particolari, soprattutto sulle torture, che solo chi era a conoscenza dei fatti poteva sapere.

Il racconto porta dritta al cuore degli apparati di sicurezza egiziani, civili e militari, della polizia di Giza, del Ministero dell’Interno e persino della Presidenza.
Secondo la fonte l’ordine di sequestrare Giulio Regeni è partito dal generale Khaled Shalabi, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza.
Nella caserma della periferia del Cairo, Regeni è stato privato del cellulare e dei documenti e sottoposto a interrogatorio. Di fronte al suo rifiuto di rispondere alle domande in assenza di un traduttore e di un rappresentante dell’Ambasciata italiana, è stato picchiato per la prima volta e sbattuto in cella.
Tra il 26 e il 27 gennaio, sempre secondo la mail anonima, il ricercatore fu trasferito su ordine del ministro dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City.

Ma Giulio ha continuato ad affermare che non avrebbe parlato senza l’assistenza della nostra ambasciata.
A quel punto, avvisato del ‘caso’, sarebbe entrato in scena il capo della Sicurezza Nazionale, Mohamed Sharawy. Quest’ultimo avrebbe chiesto e ottenuto direttive dal ministero dell’Interno su come procedere con gli interrogatori.
Cominciano così 48 ore di torture progressive.
Ma Regeni non cede. Ed è allora, si legge ancora nella mail inviata a Repubblica, che il ministro dell’Interno decide di investire della questione il consigliere del Presidente, il generale Ahmad Jamal ad-Din, che avrebbe informato Al Sisi e disposto il trasferimento dello studente in una sede dei Servizi segreti militari, anche questa a Nasr city, perché venisse interrogato da ‘personale più esperto’.
Le violenze e le sevizie si intensificano fino a uccidere il ragazzo.

A nulla valgono i tentativi dei medici di rianimarlo quando viene portato in una struttura ospedaliera dell’apparato di sicurezza.
Dopo la sua morte, sempre secondo quello che sostiene la fonte, Regeni sarebbe stato chiuso in una cella frigorifera dell’ospedale militare di Kobri al Qubba, sotto stretta sorveglianza e in attesa che si decidesse che farne.
La decisione sarebbe maturata nel corso di una riunione al ministero dell’Interno: far apparire la ‘questione’ come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e gettare il corpo sul ciglio di una strada.
Il cadavere sarebbe quindi stato trasferito di notte da Kobri, a bordo di un’ambulanza scortata dai Servizi segreti, e lasciato lungo la Cairo-Alessandria.
Nonostante quella di Repubblica appaia una ricostruzione dettagliata, troppo per essere infondata, gli inquirenti italiani non hanno acquisito la mail agli atti perché ‘anonima’ e senza alcuna rilevanza giudiziaria.
“Potrebbe essere un mitomane, come tanti in casi come questi di forte risonanza mediatica”, fanno sapere da Piazzale Clodio.
Per chi indaga, quanto affermato dal presunto esponente della polizia segreta egiziana sarebbe caratterizzato da una “molteplicità di imprecisioni sui fatti e soprattutto in riferimento agli esami autoptici”.
In sostanza la mail non sarà neanche presa in considerazione.
Intanto è stato fissato per oggi, a partire dalle 10, l’incontro con la delegazione di magistrati e investigatori egiziani, probabilmente la Scuola di polizia di via Guido Reni, dove si terrà la due giorni di confronto tra le autorità del Cairo e quelle italiane.

La riunione inizierà con uno scambio di documenti e nel corso dei colloqui si farà il punto su quanto scoperto fino ad ora e si deciderà su come procedere nelle indagini successive.
Nei giorni scorsi la stampa egiziana aveva parlato di un dossier di duemila pagine.
In Procura ancora non si conoscono i particolari del fascicolo, ma quel che è certo è che i pm attendono, da settimane, i materiali dell’inchiesta promessi e mai spediti dal Cairo.
Mancano ancora all’appello i dati delle celle telefoniche e i video delle telecamere di sorveglianza di metropolitane e negozi del quartiere nel quale Giulio viveva ed è sparito il 25 gennaio scorso, dei quali l’Italia ha fatto, in più occasioni, esplicita richiesta.
La documentazione inviata fino a oggi dall’Egitto contiene informazioni sommarie e carenti, anche sui verbali delle testimonianze raccolte dagli inquirenti egiziani.
La speranza di quanti sono impegnati nella ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni, tra cui noi di Articolo 21, è che almeno una parte di quanto richiesto da Roma sia consegnato nel corso degli incontri a Roma che seguono la riunione tra le autorità giudiziarie dei due Paesi tenutasi al Cairo lo scorso 14 marzo e che, purtroppo, è risultata inconcludente. L’ennesima presa in giro che ci auguriamo sia stata anche l’ultima.


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