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L’allarme di Onu e Ong:
la Turchia non è un paese sicuro

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Il voto di Atene passato Venerdì scorso con 169 deputati su 276 presenti, che modifica le procedure d’asilo per poter adottare il controverso accordo Turchia-UE, dà inizio al rinvio verso la Turchia dei migranti arrivati in Grecia dopo il 20 Marzo, compresi gli aventi diritto d’asilo. Le autorità di Atene, col supporto di funzionari UE e dell’UNHCR ridurranno a 2 settimane il tempo di trattamento della domanda di protezione, e sebbene resti valida la possibilità di presentare ricorso, il ritorno in Turchia in questo caso è previsto allo scadere delle 2 settimane, e non dopo l’esito del ricorso. Oltre ai migranti non aventi diritto alla protezione internazionale e intercettati in acque turche (i “migranti irregolari”), verranno riportati in Turchia anche coloro che non abbiano presentato domanda d’asilo e i profughi entrati illegalmente in Europa, compresi i siriani.

Dell’accordo e delle critiche che suscita si è detto molto. Numerose le organizzazioni umanitarie che hanno espresso timori per le infrazioni alla Convenzione di Ginevra e al principio di non-refoulement con rinvii di gruppi di persone che si configurano come deportazioni di massa; analoghi i timori delle Nazioni Unite e di Filippo Grandi, alto commissario ONU per i rifugiati, che nel suo intervento al Parlamento Europeo riunito in plenaria, lo scorso 8 Marzo, ha ricordato come i trattati europei vietino il respingimento dei richiedenti asilo, in ottemperanza alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al Protocollo di New York del 1967 che la integra.

Ankara ha firmato la Convenzione di Ginevra nel ‘61 e l’ha ratificata nel ‘92, ma ricorrendo a una fondamentale restrizione prevista dalla stessa Convenzione, ovvero la limitazione geografica per cui la Turchia concede lo status di rifugiato solo a chi ha subito gli eventi occorsi in Europa prima del 1 Gennaio 1951. Chiaramente tale restrizione si applica anche ai siriani, ovvero a quei 2.715.789 “rifugiati” ufficialmente registrati in Turchia dal Governo e dall’UNHCR (dati aggiornati al 3 Marzo 2016), che godono di protezione temporanea e non dello status di rifugiati. Ora, dalla Turchia arrivano notizie estremamente allarmanti, che Amnesty International ha appena pubblicato in base a testimonianze raccolte sul campo e riferibili alle ultime 9 settimane, riguardo a rimpatri forzati e arbitrari di cittadini siriani (e non solo); ma analoghe denunce sono state rese e documentate anche dalla BBC tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 e da Human Rights Watch, tra gli altri. E qui si pone un punto fondamentale: ci sono forti dubbi sul fatto che la Turchia possa essere considerata un paese sicuro.

Intanto però l’UE garantisce che l’accordo verrà attuato in modo da non violare alcuna norma umanitaria internazionale perché ogni domanda d’asilo verrà presa in considerazione individualmente e in modo adeguato, e perché i rinvii verranno eseguiti verso un paese sicuro, per i richiedenti protezione che non vogliano fare domanda in Grecia. Ma come può funzionare l’uno per uno, se la Turchia non riconosce lo status di rifugiati ai cittadini siriani? Ed è possibile vincolare il diritto di asilo a un principio di condizionalità? Come può essere garantito un equo trattamento delle domande d’asilo in Grecia, in sole 2 settimane, considerando che a paesi ben più rapidi ed efficienti dell’Italia servono 3 mesi per esaminarle in procedura d’urgenza, e che la Grecia da Gennaio ad oggi ha ricevuto 152.000 persone secondo i dati ufficiali (più di 2000 solo negli ultimi 5 giorni)? Nonostante il titanico sforzo di cui pure la Turchia ha dato prova finora, come considerarla un paese sicuro ai fini della protezione internazionale a fronte delle espulsioni anche verso la Siria?

Dalle testimonianze raccolte da Amnesty nelle zone di confine con la Siria, infatti, emerge che da Gennaio hanno luogo quasi ogni giorno rimpatri collettivi di centinaia di siriani, comprese donne incinte e bambini che vengono separati dai genitori. Nella provincia di Hatay, secondo gli intervistati, ci sono stati episodi di rifiuto da parte delle autorità turche a procedere alla registrazione dei siriani in fuga dal loro paese e detenzioni di siriani fermati senza avere con loro i documenti relativi alla registrazione precedentemente avvenuta. Detenzioni che anche in seguito alla presentazione di tali documenti, si sono risolte non col rilascio, ma con l’accompagnamento dei siriani al confine. Inoltre, se nei primi 5 anni di guerra i siriani in fuga dal conflitto potevano regolarizzare la loro situazione in territorio turco anche se entrati illegalmente, con le restrizioni degli ultimi mesi questa possibilità è venuta meno. Tant’è che le detenzioni e i respingimenti, nelle zone del confine turco-siriano, ormai sono un finto segreto. Le detenzioni nei centri in cui i siriani intervistati hanno dichiarato di essere stati picchiati e trattenuti anche senza formulazione di accuse precise a loro carico, dovrebbero funzionare da deterrente: se non tornate in Siria vi risbattiamo dentro. E come funziona il ritorno in Siria? Lo mostrano benissimo i reportage della BBC, documentati con interviste, foto e video, e le ricerche realizzate da Human Rights Watch.

Molti sono i casi simili a quello di Ahmad, che Mark Lowen, corrispondente della BBC in Turchia, ha documentato tra Settembre 2015 e Gennaio 2016: dopo giorni di attesa accampati fuori dallo stadio di Edirne – città di confine dove a Settembre 2000 siriani aspettano di poter passare legalmente in Grecia via terra senza mettersi nelle mani dei trafficanti – le autorità turche dispongono lo sgombero, e non viene autorizzato il passaggio in Grecia. Circa 120 di loro rifiutano di andarsene e vengono caricati su pullman che li portano verso un primo centro di detenzione. All’arrivo dei nuovi chi è già dentro mostra dalle sbarre le braccia fasciate o ingessate; racconteranno di essere stati picchiati dalle autorità. Dopodiché alcuni verranno rimpatriati in Siria; altri, tra cui Ahmad, verranno spostati in successivi centri di detenzione dove non sanno cosa attendono, perché non hanno accuse a loro carico, né tantomeno la prospettiva di un processo in vista. Altri ancora, in contatto con Lowen, dopo il rimpatrio in Siria tentano nuovamente di rientrare in Turchia, col visto di uscita delle autorità di Ankara apposto sul passaporto; dopo la detenzione infatti ad alcuni cittadini siriani è stata proposta l’alternativa: firmare una dichiarazione di “ritorno volontario” in Siria, oppure tornare in detenzione. E per tornare, non potendo restare in Siria, si ricorre ai trafficanti.

Nell’Ottobre del 2015, tra le province di Istanbul e Antakya, i ricercatori di HRW avevano raccolto le testimonianze di 51 siriani, tutti rientrati in Turchia dopo essere stati rimandati in Siria. Anche dai loro racconti emerge che la chiusura dei varchi per passare legalmente il confine tra Siria e Turchia, il limite alle registrazioni dei profughi e poi l’intensificarsi dei bombardamenti dopo l’inizio delle operazioni russe, hanno reso inevitabile l’ammassarsi di siriani in fuga al confine in attesa che i trafficanti li facessero passare. Molti di questi tentativi, insostenibili per alcuni e difficilmente superabili per anziani, donne in gravidanza, bambini e feriti nei bombardamenti che comunque hanno tentato, si sono risolti con l’intervento delle guardie di frontiera: sparando nel buio, i gruppi che tentavano il passaggio notturno si sono dispersi, e tante madri e figli, mariti e mogli, fratelli, famiglie intere si sono frammentate senza più riuscire avere notizie dei loro per mesi. Chi viene preso dalle guardie di frontiera spesso viene picchiato e poi messo in detenzione.

Ora, se in Turchia fino a poco più di un anno fa Hatay e Kilis erano i varchi aperti per accogliere i siriani in fuga, con o senza documenti, dal Gennaio 2015 il governo turco ha dato un giro di vite alle politiche di frontiera: i siriani in entrata via mare o aerea dovevano avere un visto; chi invece fuggiva a piedi dal paese in guerra, un documento di viaggio valido. Dal mese dopo però, un po’ prima delle elezioni, c’è un’ulteriore stretta del Governo e l’accesso resta garantito solo ai convogli per gli aiuti, ai feriti gravi in provenienza dalla Siria e ai siriani già registrati in territorio turco e tornati in patria con un permesso speciale (per poi rientrare in Turchia). Ricordiamo le immagini di qualche mese fa, con code di migliaia di siriani in attesa al confine, i cannoni ad acqua e gli spari di avvertimento delle forze dell’ordine turche. Questo ha comportato che per passare ci si affidasse ai trafficanti o alla fortuna (guardie di frontiera che chiudono un occhio o si fanno pagare per lasciar passare). Poi a Luglio c’è l’attentato rivendicato dall’ISIS, a Suruç, e le ragioni di sicurezza contro la minaccia terroristica dell’IS s’impongono: il Governo annuncia la costruzione di muri, barriere di filo spinato e scava fossi profondi metri per proteggere i confini, mentre da Dicembre c’è un nuovo irrigidimento delle regole in materia di visti per chi scappa dai bombardamenti e dagli scontri in Siria. A Febbraio l’ultima serie di richiami UE verso la Turchia che vedeva decine di migliaia di profughi siriani in attesa alla frontiera, chiusa, a fronte dei 3 miliardi promessi che si aggiungevano all’obbligo legale e morale, per la Turchia, di accogliere.

Ora, iniziati i rinvii in Turchia, oltre alle denunce delle ONG e ai seri allarmi lanciati dalle Nazioni Unite, c’è anche una grande attenzione mediatica sull’avvio delle operazioni, e nella prima giornata tutto si è svolto in ordine e calma. Certo, il messaggio che si vuole far passare intanto è che gli arrivi illegali non hanno scampo e in effetti la data del 20 Marzo ha segnato uno spartiacque: gli sbarchi in Grecia sono scesi da una media quotidiana intorno ai 2000 ai circa 300 al giorno delle ultime 2 settimane, compresa la giornata di lunedì, con 330 arrivi sulle isole greche. Eppure dubbi ci sono anche circa l’efficacia dissuasiva a lungo termine.

Ma ai giornalisti e alle ONG presenti sulle isole greche, le autorità non hanno permesso di verificare le informazioni circa alcune delle procedure che hanno preceduto le partenze. Il portavoce della Commissione Europea M. Schinas ha riferito che i primi 202 riportati in Turchia (con altrettanti agenti di polizia europea) abbiano optato volontariamente per la partenza ritenendo che “presentare la domanda d’asilo in Europa non fosse la miglior strada per loro”, anche se non è dato sapere se e come sia stata loro spiegata la situazione, quali fossero le alternative e le conseguenze del ritorno in Turchia (in particolare per i non siriani) e che possibilità sia stata data a queste persone di presentare la domanda, cosa non semplice senza l’adeguata assistenza linguistica e legale. Tuttavia può sorprendere scoprire che le stesse persone da poco arrivate, magari scampando al mare e assumendosi una dose disperata di rischi, approdate in Grecia si rendano conto che chiedere asilo in Europa non sia la migliore delle loro soluzioni. Tra l’altro sui traghetti salpati oggi verso i porti turchi oggi c’erano principalmente pakistani e afgani. Persone che una volta riportate nei loro paesi non avranno alcuna garanzia di vivere in sicurezza.

Ma forse è vero che, come qualcuno mi disse una volta, il mondo si divide tra chi non riesce a chiudere occhio la notte, e chi invece dorme sempre sonni tranquilli.


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