Non era in aula Giulio Caria durante la lettura della sentenza di secondo grado emessa dalla corte d’assise d’appello di Bologna, che ha confermato la condanna a 30 anni per quello che è stato soprannominato il delitto del freezer. Un brutale femminicidio, una storia di abusi e violenze, messe in atto dal muratore sardo per oltre un anno e mezzo nei confronti di Silvia Caramazza, commercialista con cui aveva iniziato una storia. Accanto a lei, l’uomo aveva avuto accesso ad una vita di agi che altrimenti non si sarebbe potuto permettere. Ma non gli bastava, voleva di più, voleva disporre di tutto Caria, dei soldi e della persona.
Lo faceva fingendo attenzioni, abbracci soffocanti mascherati da gesti protettivi, come quando nascose per casa telecamere di sorveglianza, dicendo, una volta scoperto, di voler controllare se in casa entrasse qualcuno. Oppure facendo pedinare a sua insaputa Silvia, dicendo di volerla proteggere da un suo ex invadente. Lo stesso avveniva con il telefono e la mail spiati continuamente dall’uomo.
Tutte cose messe nero su bianco dalla vittima che scrisse ogni dettaglio sul suo blog intitolato “latte versato”, un nome tristemente premonitore. “Tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un’azione che può passare così, senza colpo ferire. Dire a una persona ”ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore” è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque”.
Un grido di dolore chiaro e circostanziato che nessuno seppe udire. Non gli amici, non il mondo impiccione dei social, chi leggeva i suoi post non seppe dare il giusto peso a questo allarme, lasciando Silvia in balia di un uomo che il giudice definì “un predatore brutale e disumano. Un parassita che, venendo sfumare la possibilità di sfruttare ancora la preda, ha fatto scattare tutta la sua ferocia”.
La sera dell’omicidio Silva e il suo assassino andarono a cena fuori, al ritorno a casa lei probabilmente gli comunicò la decisione di volerlo lasciare, lui allora la colpì ripetutamente in testa con un oggetto, uccidendola. Poi comprò un freezer a pozzetto dove nascose il corpo della donna. Stette in casa per 6 giorni con il cadavere congelato, ritrovato dai Carabinieri in posizione fetale dentro un sacco della spazzatura, quando l’uomo era già scappato in Sardegna dove poi venne arrestato. Negò tutto, come fece con la donna quando lei si lamentava delle sue violenze. Ma stavolta nessuno gli ha creduto.
Ci si chiede se la vita di Silvia, come quella di tante donne vessate a lungo e poi uccise, si potesse salvare, in questo caso dando ascolto ad una denuncia chiara e pubblica. Se la condivisione delle violenze, come quella fatta da Silvia sulla rete, possa generare un meccanismo di protezione sociale o se vinca un senso di egoismo autoreferenziale che ci rende comunque indifferenti a chi ci sta anche solo virtualmente vicino.