C’è da vergognarsi, c’è davvero da provare sdegno e incredulità per l’accordo sui migranti raggiunto fra giovedì e venerdì al Consiglio europeo, il quale ha sancito, di fatto, la sconfitta morale e civile del Vecchio Continente. Perché se l’Europa è questa, allora io non ne voglio fare parte; se l’Europa è questa, provo orrore nel considerarmi cittadino europeo; se l’Europa è questa, vorrei essere nato in qualunque altro angolo del mondo.
Un continente avido e governato per lo più da populisti, da personaggi privi del benché minimo senso dell’umanità, della tolleranza e dal rispetto per il prossimo, in preda a un pericoloso fascismo di ritorno che un tempo caratterizzava soltanto le cosiddette forze anti-sistema mentre oggi è divenuto un caposaldo anche dei sedicenti riformisti; un continente che svende la propria dignità e i propri valori a un paese, la Turchia, che non offre alcuna garanzia dal punto di vista della tutela dei disperati in fuga dalla miseria e dalla guerra.
La verità, infatti, è che l’area geografica più ricca del mondo, abitata da oltre cinquecento milioni di persone, si rifiuta di accogliere e integrare un numero cospicuo, ma irrisorio, se confrontato con la popolazione europea nel suo complesso, di poveri cristi la cui unica colpa è quella di essere nati in una regione, quella del Siraq, che oggi, in pratica, non esiste più, a causa della nostra avidità, della nostra cinica indifferenza e delle nostre sporche guerre, terreno di coltura ideale per l’avvento di una forza jihadista mai vista prima per organizzazione e capacità di attrarre ogni giorno nuovi combattenti disposti a immolarsi in nome di Allah.
La verità è che un insieme di soggetti inadeguati, quando non apertamente xenofobi, si è riunita a Bruxelles per decidere quanto valga, in termini economici, la vita di uomini, donne e bambini, stabilendo che delle loro sorti, di cosa potrebbero subire in un Paese violento e governato da un soggetto inaffidabile e pericoloso come Erdogan e del destino di interi popoli in cerca di un minimo di speranza e di conforto non gliene importa nulla.
Perché i poveri non votano, gli ultimi non votano, i disperati non votano e non fanno mai notizia né, tanto meno, portano consensi, e questi venditori di fumo non sono interessati ad altro che al profitto elettorale, alla soddisfazione effimera di un’opinione pubblica sempre più feroce e assetata di sangue, sempre più alla ricerca di un capro espiatorio contro cui sfogare la propria rabbia, di un derelitto più derelitto di sé cui dare la colpa per le conseguenze di una crisi economica che non accenna a passare, in quanto continua ad essere combattuta con strumenti inadatti e perseguendo lo stesso modello di sviluppo che l’ha generata.
E se ci pensate, il liberismo economico non è affatto scisso dalla visione guerrafondaia in politica estera e dalla disumanità estrema nella gestione dell’emergenza migranti: quando si sancisce che l’uomo è merce, che i diritti non contano nulla, che la dignità delle persone viene dopo il denaro e che l’importante, per chi governa, è la gestione del potere per il potere, quando questo è l’orizzonte verso cui ci si rivolge è logico che i poveri vengano trattati come oggetti di scarto, come rifiuti, come sudditi e come schiavi, senza un minimo di comprensione né di solidarietà.
Se a questo poi aggiungiamo l’ipocrisia, i pianti di coccodrillo di fronte al cadavere del piccolo Aylan e la commozione fittizia al cospetto del bambino nato nel campo di Idomeni e lavato con una bottiglia d’acqua, ecco che abbiamo davanti a noi l’atteggiamento tipico di una serie di imprenditori del marketing, di abili affabulatori, di illusionisti, proni ai dogmi dei membri più retrogradi della compagnia e incapaci di esercitare un minimo di egemonia culturale basata sui princìpi e sui valori costitutivi di quello che fu il sogno europeo dei padri del dopoguerra.
Assistiamo, dunque, alla dittatura di fatto di tanti piccoli Orbán che, oltretutto, più passa il tempo, più fanno scuola, esportando le proprie mefitiche idee anche in paesi che un tempo avremmo considerato civili mentre oggi propongono di abolire unilateralmente Schengen, di discriminare i nuovi arrivati, di far vivere la popolazione in uno stato d’emergenza permanente, di varare leggi sulla sicurezza che, in realtà, celano un desiderio di controllo e di dominio di stampo orwelliano, di trasformare sostanzialmente l’Europa in un enorme campo profughi o, peggio ancora, in una sorta di campo di concentramento a servizio permanente effettivo, tornando indietro di oltre mezzo secolo sul piano delle conquiste sociali e dell’attuazione di quelle costituzioni liberali che, guarda caso, sono anch’esse sotto attacco e costantemente messe in discussione.
È la dittatura della disumanità, il trionfo dell’odio, la vittoria senza ritorno della legge della giungla; è un nazismo 2.0 che si impone all’attenzione delle cronache ma ci lascia quasi indifferenti, in quanto anche noi, mi spiace dirlo, non siamo altro che i sostenitori di quel potere nonché la ragione principale per cui esso si comporta così. Siamo tornati intimamente nazisti senza accorgercene e abbiamo trovato in un paese come la Turchia, nel quale i giornali di opposizione vengono chiusi con la forza e trasformati in gazzette filo-governative, il nostro degno alleato, cedendo ad ogni ricatto, così come abbiamo ceduto ai ricatti insostenibili di Cameron nel tentativo di scongiurare il Brexit.
Siamo tornati ai giorni della Conferenza di Monaco del ’38, all’illusione insulsa che il nazismo conosca dei limiti, che gli argini della democrazia possano reggere al suo impatto senza combatterlo e reagire apertamente, che l’incoscienza dei Chamberlain e dei Daladier contemporanei non avrà conseguenze, che con la ripresa dei flussi costanti di migranti, legata all’arrivo della bella stagione, non assisteremo all’ulteriore lepenizzazione del dibattito pubblico, che quest’oppressione del male possa dissolversi per miracolo, non si sa come né per merito di chi, magari autonomamente. Siamo alle formule magiche, alle attese messianiche, al disvelamento di una totale mancanza di visione politica, alla resa di un progetto che non regge più, non avendo gambe sufficientemente robuste sulle quali camminare né interpreti all’altezza del compito di restituirgli un senso e di trasmetterlo ad un’opinione pubblica imbarbarita.