Per la Voce delle Voci, storica rivista (erede della Voce della Campania), per trent’anni protagonista di clamorose inchieste, giornale che ha ospitato firme prestigiose del giornalismo e della politica, tra cui quella dell’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non è soltanto una sconfitta ma una grande umiliazione. Ma è anche qualcosa di più: una punizione esemplare, un avvertimento a tutti i giornalisti ed editori che scrivono articoli su vicende controverse. Nei prossimi anni perciò la Corte Europea dei Diritti Umani potrebbe accogliere un ricorso analogo a quello rigettato dal giudice di Napoli. Ma intanto?
“La vendita all’asta giudiziaria della testata e il pignoramento dei beni personali dei giornalisti e degli editori della Voce delle Voci – ha commentato il direttore di Ossigeno per l’Informazione, Alberto Spampinato – dimostra che il carattere punitivo della legislazione italiana sulla diffamazione a mezzo stampa è sconfinato, è tale da causare la cessazione delle pubblicazioni di un giornale e la perdita dell’intero patrimonio personale di giornalisti ed editori colpevoli di un errore. Leggi e sentenze che permettono tutto ciò limitano la libertà di stampa”.
“La giurisprudenza di Strasburgo – ha aggiunto Spampinato – ha sempre sanzionato i risarcimenti per diffamazione come questo caso, che impediscono a giornali e giornalisti di proseguire la loro attività, ma adesso con la vendita della testata si va ancora oltre e io credo che un giudizio di questo tipo dovrebbe suscitare l’attenzione di tutti i giornalisti e editori e di coloro che già tengono sotto osservazione un paese in cui la stampa è libera soltanto parzialmente”.
Il provvedimento di vendita giudiziaria, emesso il 9 febbraio 2016 dalla Sezione civile quinta bis-Esecuzioni del Tribunale di Napoli, è soltanto l’ultimo atto di una vicenda iniziata nel 2008. Da allora, la testata è stata bersaglio di una serie impressionante di provvedimenti giudiziari che hanno causato prima il blocco dell’edizione stampata della rivista e ora il rischio della fine definitiva. Una storia complicata che, per essere compresa, va raccontata bene e dall’inizio.
Tutto inizia nell’ottobre del 2008, quando La Voce pubblica un articolo (del giornalista Rai Alberico Giostra, che si firma con pseudonimo Giulio Sansevero). Riguarda il movimento politico Italia dei Valori, fondato da Antonio Di Pietro, e i rapporti fra il leader e le persone che lo rappresentano a livello locale. Fra l’altro, nell’articolo si parla delle voci riferite da alcuni quotidiani nazionali, secondo le quali Cristiano Di Pietro, figlio del leader di IdV, avrebbe superato gli esami di maturità anche grazie all’interessamento di Annita Zinni, insegnante molisana amica di famiglia dei Di Pietro.
Nel 2010, oltre un anno dopo la pubblicazione dell’articolo, la Zinni cita in giudizio presso il Tribunale civile di Sulmona (città in cui risiedeva e insegnava), i giornalisti e la cooperativa editrice per diffamazione a mezzo stampa e chiede 40.000 euro di risarcimento danni per il “patema d’animo transeunte” sofferto a causa dell’articolo.
Il 25 marzo 2013 il giudice Marasca, sulla base della perizia di una psicologa e la testimonianza di Aura Scarsella (gip presso lo stesso tribunale), condanna in primo grado il direttore responsabile della Voce Andrea Cinquegrani e la Coop editrice Comunica a risarcire danni morali e fisici alla Zinni per 69 mila euro. Calcolando interessi e spese legali la somma da versare lievita a 95 mila euro (a fronte di una richiesta di 40 mila euro). Contro la sentenza, direttore ed editore, presentano ricorso presso la Corte d’appello dell’Aquila.
Tre mesi dopo la sentenza, a giugno 2013, in esecuzione di un atto di pignoramento promosso dai legali della Zinni a valere verso tutti i terzi, il Tribunale Civile di Roma dispone il blocco del conto corrente del giornale su Banca Etica, per un importo di 142 mila euro, con una maggiorazione del 50 per cento sulla cifra stabilita dal Tribunale di Sulmona. Con lo stesso pronunciamento il Tribunale dispone il sequestro dei contributi per l’editoria assegnati alla testata relativi al 2012, pari a circa 20 mila euro, e ancora non corrisposti. A dicembre 2013, sempre per effetto della sentenza di primo grado, racconta il direttore Cinquegrani “abbiamo dovuto lasciare la palazzina di via San Romualdo dove avevamo casa, redazione, archivio e il deposito per lo stoccaggio delle rese”.
Il 1 aprile 2014 si tiene la prima udienza alla Corte d’appello dell’Aquila. Gli avvocati della testata chiedono, senza risultato, la sospensione della provvisoria esecuzione dei pignoramenti: il numero di banche verso cui i legali della Zinni hanno avviato la procedura è arrivato a 36. Si giunge anche a chiedere “il pignoramento della pubblicazione periodica la Voce delle Voci, in tutte le sue denominazioni ed edizioni, nazionale e locale, ivi compresa la testata giornalistica quale segno distintivo dell’opera”.
Nel 2014, gli imputati presentano un esposto a Consiglio Superiore della Magistratura, Ministro della Giustizia, Procura Generale, Cassazione e Procura competente (Campobasso) per chiedere se sia legittimo che il giudice Marasca abbia ascoltato come testimone la Scarsella, gip presso lo stesso tribunale. La procura di Campobasso apre così un fascicolo a carico del giudice Marasca ma, il 19 ottobre 2015, dispone l’archiviazione del procedimento.
Si arriva così al 9 febbraio 2016: il giudice Roberto Peluso, della Sezione civile quinta bis-Esecuzioni del Tribunale di Napoli, respinge il ricorso presentato dagli imputati ed emette il provvedimento di vendita tramite asta giudiziaria di “beni mobili”. Entro il 5 ottobre 2016, per il tribunale, la testata La Voce delle Voci sarà venduta. Ma per i giornalisti-editori il calvario giudiziario non sarà ancora concluso: a settembre 2016, presso la Corte d’appello dell’Aquila si terrà l’udienza di appello contro la sentenza di primo grado. Secondo i legali, sarà una udienza “interlocutoria”, cui ne seguiranno altre.