Se alcuni giornalisti (e ne conosco molti perché per molti anni ho fatto proprio quel mestiere) andassero a leggersi con attenzione il cosiddetto Jobs act e la conseguente legge di stabilità che è stata presentata dal governo per l’anno in corso (senza per questo riuscire a far ripartire un’economia che ha troppi problemi di lungo per ripartire in maniera più rapida di quanto finora sia accaduto) dovrebbero notare una cosa che si vede con chiarezza a prima vista. Con quegli atti è scomparso in Italia il classico precariato a cui eravamo abituati: quello che ha eliminato ogni altra forma di collaborazione precaria e privilegia su tutte (a parte i contratti regolari a tempo lungo o indeterminato) i buoni o voucher come si è presa l’abitudine di chiamarli a 7 euro e 50 centesimi di paga netta all’ora più un e trenta di contributi pensionistici all’INPS, settanta centesimi di assicurazione anti infortunistica all’INAIL e cinquanta centesimi di gestione del servizio. Fanno dieci euro tondi tondi: cioè il costo orario del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza.
E’ nata così una nuova classe sociale o se volete un nuovo strato sociale degli italiani inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e nelle ripetizioni del doposcuola. I nuovi poveri che nonostante che lavorino sono appena oltre il limite minimo della sussistenza e che vivono appena sopra il limite di sussistenza o appena sotto. Ma che non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità, a paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale o al permesso per accudire i figli malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che hanno fatto finora la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali. Perché al fuori dei pochi centimetri quadrati del “buono” di cui stiamo parlando il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere.
Pochi giorni fa l’INPS ha confermato il boom anche per il 2015:115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 % in dodici mesi con punto del 97,5% in Sicilia, dell’85 % in Liguria,del 83 % in Puglia e in Abruzzo, del 79 % in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già due milioni di lavoratori, metà uomini e metà donne con un’età media in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro;44 e 36 anni nel 2011;37 e 34 anni oggi. La prima categoria è quella degli studenti degli istituti superiori e delle università e per altri è un doppio lavoro.
E qui il giudizio non è negativo. Ma la seconda categoria di voucheristi è fatta da quelli che integrano la magra pensione di anzianità o il salario di disoccupazione . La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto o per persone in mobilità sopra i quaranta cinque anni che non torneranno mai a un vero contratto di lavoro. E ci sono anche le finte partite Iva, un settore che è crollato del dieci per cento nel 2015.
L’idea dei voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro. Quelli che trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti invece continuano a suddividere l’impiego stabile in più rapporti accessori. E qui c’è la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo in buoni che un lavoratore non può superare e i 2020 euro netti all’anno pagati da ogni singolo committente. Insomma si è trovato un modo che almeno in apparenza appare coerente con le leggi per trasformare lavori pagati poco e male in lavori stabili in mancanza di meglio e tali da non creare nessun vincolo particolare tra chi dà il lavoro e chi lo assume. Con un gran vantaggio per i datori di lavoro e una sorta di illusione di aver superato il peggio in lavoratori che sopravvivono appena. Un buon risultato non c’è che dire soprattutto in certe regioni in cui non si trova niente di meglio.