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Il femminismo nero che racconta la storia dell’Africa

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“Non è la cultura a fare le persone, sono le persone a fare la cultura”. Assolutamente condivisibile l’affermazione della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Condivisibile ma non lapalissiana, considerato in quante situazioni la cultura dominante impone modelli e comportamenti. E non sono solo comportamenti e modelli “maschili”. Lo stesso vale per le lotte femminili, per il femminismo.

L’ultimo lavoro di Adichie è un libello di sole 50 pagine dal titolo “We Should All Be Feminists“, Dovremmo essere tutti femministi. Sì “tutti” non tutte”, perché nella sua nuova definizione di femminista “un/una femminista è qualcuno che dice: sì c’è un problema di genere oggi e noi dobbiamo risolverlo, noi tutti dobbiamo far meglio”.
Ma l’essere (o il diventare) tutti femministi, non può essere scollegato dalla realtà. Dalle realtà. Non può diventare un altro tentativo di globalizzare idee e aspettative. Perché i mondi – che ci piaccia o no – nonostante la dominazione culturale occidentale – sono diversi, sono ancora diversi. Ed è giusto che sia così e c’è da augurarsi che così rimanga, anche se ci sono buoni motivi per dubitarne.

Esiste un femminismo africano – per quanto a molti possa sembra strano o suonare come una novità. Perché il femminismo non è neutro, non è assoluto. Il femminismo ha sfumature e colori e sarebbe un peccato non conoscerla questa storia nera del femminismo. Nera, o anche viola. Come quello di Alice Walker, l’autrice del celebre “Il colore viola” da cui è stato tratto il film firmato da Steven Spielberg.

La scrittrice afro-americana aveva coniato il termine womanism per avanzare l’idea e la necessità di un cambiamento di mentalità che tenesse conto delle difficiltà e delle esperienze specifiche delle donne nere e delle minoranze.

Womanist is to feminist as purple is to lavender. Womanist sta al femminismo come il colore viola sta alla lavanda, diceva la Walker, mettendo insieme in questo concetto e nel nuovo termine coniato, femminilità, negritudine e razzismo. Il femminismo, infatti, in Africa e nella comunità femminile afro-americana è stato sempre associato alla cultura occidentale, alla donna bianca che spesso – prima di essere femminista – era razzista proprio come gli altri. Una womanist ama le donne, la loro cultura, ma ama anche gli uomini e fare bambini, combatte il razzismo, odia i separatismi.

È questo desiderio di esprimere la propria dimensione unica e diversa, che nel tempo ha fatto nascere movimenti femminili africani in grado di portare il proprio personale contributo alla cosiddetta emancipazione. Un’emancipazione di genere ma quasi mai avulsa dall’emancipazione politica del post-colonialismo, da cui nasceva, già negli anni Settanta, il post-colonialimso femminista, laddove appunto il femminismo sembrava focalizzarsi solo sulle problematiche e le esperienze delle donne occidentali. Un’emancipazione che rivendicava anche la conservazione di propri valori e della cultura indigena, riconoscendosi nell’Africana womanism. E, ancora, il Black feminism legato al ruolo delle donne nel movimento dell’indipendenza, del nazionalismo nero, della liberazione gay. Ma anche il forte contributo dato dai movimenti sociali ed ecologisti.

Ma attenzione, così come il femminismo nero non è un’esperienza di derivazione occidentale non è neanche nuova. Il femminismo in Africa – con le sue note particolari – è sempre esistito, con le donne guerriere, le regine che lottavano per la giustizia e scacciavano il colonizzatore, filosofe che percorrevano strade originali del pensiero.

Certamente, ci sono temi e problemi comuni alle donne di tutto il mondo: patriarcato, violenza domestica, accesso alle cariche, ma ce ne sono altre (persino quella che riguarda le mutilazioni genitali o i matrimoni delle bambine) per le quali si ha il diritto di lottare con le proprie armi, con le proprie voci, con la propria lingua anche.

Una storia del femminismo in Africa (o delle femministe africane) non è facile da tracciare. Non ha un inizio preciso e, naturalmente, non è ancora finita. Si può provare  a fare un elenco, che aiuta a conoscere donne africane, anzi “fenomenali femministe africane” che stanno influenzando la politica e la società del continente. Si può provare a restare aggiornati sugli studi e le attività intorno al mondo dell’African Feminist Forum o dell’African Gender Institute. Si può provare anche a stupirsi di quante donne in Africa siano alla guida dei loro Paesi e abbiano ricoperto o coprano il ruolo di primo ministro, presidente, ministro degli Esteri… O approfondire la storia di vere e proprie icone africane illustrate in questa mappadell’UNESCO.

Quello che andrebbe invece finalmente evitato è continuare a inscatolare le donne africane nella solita, stucchevole iconografia stereotipata dei media.

The strugglers, the survivors, the stereotyped empowered african woman. Quelle che lottano e fanno fatica, le sopravvissute alla lotta e quelle che si sono affrancate e hanno guadagnato qualche forma di libertà e acquisito un ruolo nella società: sono le tre categorie di stereotipo identificate da Minna Salami, scrittrice, blogger ed esperta di femminismo africano. Visioni distorte – illusions le chiama Minna – proposte e riproposte dai media occidentali che mostrano donne affaticate sotto il peso di taniche d’acqua e di bambini, violentate dalle guerre, o sorridenti (e riconoscenti) all’obbiettivo, come segno di superamento di un calvario perenne, spesso aiutate da ONG. O, infine, donne che sono diventate qualcuno ma pur sempre passando dalla medesima ordalia o discendenti di chi ha attraversato l’inferno. Ma le vite delle donne africane sono molto più sfumate e complesse. Afropolitan, il blog della scrittrice e studiosa, di padre nigeriano e madre finlandese, è un mondo che bisognerebbe visitare. Almeno se si ha voglia di conoscere il femminismo dall’angolazione africana e l’Africa dall’angolazione femminista.

Di ricerche sulle donne africane da parte di donne occidentali – ricorda ancora la scrittrice in una suapartecipazione a TED – ne sono state fatte tante, ma queste non tengono conto di quanto il colonialismo e il razzismo abbiano influenzato e cambiato la vita delle donne africane.

Don’t try to recruit Black women into the women’s movement on the basis of sexism of the Black male. Recruit Black women by attacking the racism of White females.

Non cercate di ingaggiare donne nere nell movimento delle donne sulla base del sessismo degli uomini neri. Fatelo attaccando il razzismo delle bianche“. Parlava così Florynce “Flo” Kennedy, afro-americana, carismatica femminista e attivista del Black power, il potere nero. Ascoltare i suoi discorsi o le citazioni riportate su Colorlines può disturbare, forse tanto quanto disturba una donna che indossa il velo ascoltare i giudizi degli altri sulle sue scelte e la sua cultura. Verrebbe da dire che i femminismi (o womanism) siano tanti quanto le diversità culturali ma anche tanti quante le donne che scelgono di mettersi in prima linea e rivendicare spazi, diritti, desideri, opportunità. Per se stesse e per le altre. Evitando di pensare che quello sia l’unico femminismo possibile.

C’è la parola pungente di “Flo” ma c’è anche quella carezzevole ma incisiva di Adichie, due estremi che solo apparentemente sono tali. Perché le donne, dopotutto, hanno milioni di sfumature. Ed è anche di queste sfumature – non del colore nero – che è fatta la storia dell’Africa.

Nella foto: Wangari Maathai (1940-2011 Kenya). Attivista politica, ambientale e per i diritti delle donne. Fondatrice del Green Belt Movement. Prima donna africana a ricevere il premio Nobel per la pace, nel 2004. Foto tratta dal web.

Fonte: voci globali


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