L’Italia può ancora privare della libertà personale e mettere agli arresti un giornalista accusato di diffamazione. Non è uno spauracchio, una eventualità remota, ma un fatto reale, un fatto accaduto molte volte, che si ripete ai nostri giorni, nonostante un disegno di legge in corso di approvazione proponga di evitarlo, nonostante in passato i presidenti della Repubblica abbiamo raccomandato di non arrivare a questi eccessi e, di fronte alle proteste internazionali, abbiano concesso la commutazione della pena ad alcuni giornalisti sottoposti a questi provvedimenti.
La cronaca di febbraio 2016 conferma che il carcere è e resta una punizione prevista e applicata, nonostante sia ormai risaputo che ciò ha un effetto raggelante sull’intero mondo dell’informazione, spinge tutti i giornalisti ad auto-censurarsi per evitare questo rischio.
A confermarlo è la vicenda del giornalista Antonio Cipriani, che a gennaio del 2016, in esecuzione di una condanna ha scontato ventidue giorni di detenzione con una pena alternativa, l’affidamento ai servizi sociali. La sua storia ripropone un’altra aberrazione della legge attuale, già segnalata ma tuttora irrisolta: l’irresponsabilità legale dell’editore in seguito a cessazione dell’attività per fallimento con il conseguente trasferimento dell’intera responsabilità e delle spese di difesa sull’autore dell’articolo pubblicato e sul direttore responsabile.
Antonio Cipriani, ex direttore responsabile, era rimasto orfano dell’editore. Aveva speso tutti i suoi soldi per affrontare numerose cause pendenti. Quando fu condannato in primo grado, pur ritenendosi innocente, non sapeva come fare e non presentò appello rendendo così definitiva la condanna. L’autore dell’articolo, condannato insieme a lui, invece fece ricorso e la Corte d’Appello gli ha dato ragione, annullando la condanna. Di conseguenza la pena è stata annullata anche per Cipriani.
A febbraio 2016 un’altra vicenda conferma un’altra barbarie della legislazione attuale: la durata interminabile dei processi. Il fatto che un processo per diffamazione possa protrarsi per oltre dieci anni avvantaggia chi ne fa un uso strumentale a fini intimidatori. A confermarlo è il procedimento in cui sono imputati l’ex direttore del quotidiano Libero, Alessandro Sallusti, e il cronista Giuseppe Rinaldi, per un articolo pubblicato nel 2004. I due giornalisti sono stati processati tre volte. Dopo la condanna di primo grado, la Corte d’appello li ha assolti. Ma la parte civile (non il Procuratore generale, titolare dell’azione penale) ha presentato ricorso per Cassazione. Il Supremo giudice – non esistendo più l’aspetto penale della vicenda, ma soltanto il ricorso della parte civile – ha accolto le ragioni della parte civile rinviando il fascicolo davanti a una Corte di appello civile perchè decida sui danni che avrebbe patito il querelante-ricorrente. Ci vorranno anni per definire questo procedimento, che ne ricorda un altro conclusosi ventun anni dopo la pubblicazione dell’articolo contestato, con una condanna.
Come giudicare questa situazione? “La mancanza di sicurezza per i giornalisti, l’impunità per i crimini commessi contro di loro, e le pressioni politiche sui media sono un problema di lunga data in Italia”, ha risposto Nils Muiznieks, il Commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, prendendo spunto dalle offese rivolte al giornalista Lirio Abbate e dal sequestro di un video trasmesso dal programma televisivo “Piazza Pulita – La7″ eseguito per individuare alcuni poliziotti intervistati con espedienti tecnici per mascherarne l’identità. Questi casi, ha detto il Commissario, “sono esempi emblematici della preoccupante vulnerabilità strutturale cui devono far fronte i media in Italia”. “Il fatto che lo Stato resti in silenzio su casi come questi – ha aggiunto – aumenta le difficoltà che i giornalisti devono affrontare tutti i giorni nel fare il loro lavoro, che è fondamentale”. Muiznieks ha inoltre affermato che “fornire una scorta ai giornalisti minacciati è bene, ma non basta”.
A febbraio non è passato giorno senza che Ossigeno registrasse nuove violazioni della libertà di stampa compiute con minacce e intimidazioni ai danni dei giornalisti. Sono infatti 27 gli episodi riferiti e documentati dall’Osservatorio. Con l’aggiunta di questi ultimi episodi, il Contatore è arrivato a 2763.
Questo è il numero dei giornalisti a carico dei quali Ossigeno ha documentato minacce e intimidazioni dal 2006 ad oggi (90 quelli documentati dall’inizio del 2016). Le cifre sono impressionanti anche per chi vive in Italia, perché la percezione del fenomeno è ancora vaga.
Ed è desolante notare quanto determinate tipologie di minacce continuano a ripetersi a ritmo costante. Non c’è alcun segnale di rallentamento, anche perché finora non si è fatto nulla per arginare il fenomeno. Si continua a denunciare, processare per diffamazione – e talvolta anche a condannare alla pena detentiva – giornalisti e direttori di giornali. Si continuano a registrare aggressioni, minacce, discriminazioni, abusi evidenti che rimangono in massima parte incontrastati e puniti. Le vittime più numerose sono i cronisti locali, i corrispondenti, i freelance, i giornalisti che lavorano in provincia, fuori dalle grandi redazioni. Si diffonde la moda di impedire ai cronisti sgraditi di partecipare ad eventi pubblici, di allontanarli da incontri a cui avrebbero diritto di assistere, o di bersagliarli con attacchi, insulti, commenti derisori o denigratori. In certi ambiti, come nel calcio – anche professionistico – questo accade con una frequenza che lascia pochi dubbi sulla debole protezione di cui godono gli operatori dell’informazione. (…)
Questo brano è tratto dalla rassegna mensile delle intimidazioni in Italia realizzata da Ossigeno per l’Informazione per il Centro Europeo per la Libertà di Informazione e di Stampa di Lipsia (ECPMF) con il sostegno dell’Unione Europea LEGGI LA RASSEGNA
MF – ASP