Caro Stefano Tesi, forse ci conosciamo, forse no. Sono giornalista professionista dall’ottobre 1963, anche se, in pensione da molto tempo, scrivo soltanto su internet. Tre anni in un quotidiano fiorentino e poi trenta alla RAI come inviato speciale. Per nove anni, dal 1992 al 2001, ho fatto parte del Consiglio nazionale dell’Ordine, intervenendo più volte con argomenti abbastanza simili ai tuoi, solo un po’ più gentili, sulla necessità di riformare la nostra legge professionale, con l’obbiettivo di riconoscere “stessi diritti, stessi doveri, stesso esame e stessa qualifica” per chi svolge effettivamente il mestiere di giornalista e non altra professione. La reazione dei consiglieri pubblicisti, ma allora anche dei professionisti che sul loro voto contavano per conquistare la maggioranza, è stata e continua ad essere sempre la stessa, tanto più che la distribuzione dei seggi in consiglio la rafforza per legge col passare degli anni. La “ventilata riforma” ha continuato fino ad ora a ondeggiare nel vento senza mai approdare in Parlamento, dove – non dimenticartelo – quelli che tu chiami “giornalisti per finta” sono ampiamente rappresentati. Oggi il loro tempo è finito? Lo dici con tanta sicurezza che forse sei più aggiornato di me. Ma temo che, molto prima dell’occupazione da parte loro del Consiglio nazionale, finirà l’Ordine stesso per la sua provata irrilevanza, apprezzatissima da politici ed editori. (nandocan).
***di Stefano Tesi, 26 febbraio 2016* – Caro collega (mi dispiace doverti chiamare così), che non hai mai scritto una riga o che l’hai scritta per l’ultima volta millant’anni fa, sfuggendo non si sa come alle revisioni dell’albo (se le hanno fatte) e approfittandone per ritagliarti un posticino di potere, tu che ti pavoneggi durante le sagre di paese per il “tesserino” (orribile espressione!) che porti in tasca.
Proprio a te che oggi, nella prospettiva di una riforma indispensabile, destinata a ammodernare finalmente la nostra categoria dopo 50 anni di inerzia, con una mano pontifichi su una professione che non pratichi nè conosci e ti arrabatti con l’altra, però, per fare in modo che tutto resti com’è solo per continuare a pavoneggiarti, voglio dire pubblicamente una cosa: vai a quel paese.
Nulla di personale: anzi mi fai tenerezza, al massimo un po’ rabbia ogni tanto. E capisco, davvero, capisco anche il tuo smarrimento nella prospettiva di perdere ciò che ti sembra (a me, no) un privilegio: poterti proclamare “giornalista“.
Ce l’ho invece con quello che rappresenti: una subcategoria pletorica e anacronistica che, così com’è, con la sua parte malata strangola quella sana, solo grazie all’esistenza della quale hai tuttavia finora potuto fingere di esercitare un mestiere che non eserciti, quello appunto del giornalista.
Siccome nella vita fai tutto tranne che scrivere articoli, ma certamente stupido non sei, avrai anche notato che (poichè stupido non sono neppure io) ho finora accuratamente evitato di usare l’espressione per la quale aspettavi di prendermi in castagna, strepitando poi ad arte contro una presunta discriminazione, per non dire un attentato, ai danni dei “pubblicisti“.
Eh sì, perchè la riforma che si prospetta entro fine anno non è affatto, come ti fa comodo sostenere, un agguato ai “75mila pubblicisti italiani“, bensì proprio il contrario: è qualcosa che va a favore dei pubblicisti veri e in generale di chi giornalista non solo lo è (cosa a mio parere sempre imprescindibile), ma lo fa. Tutti giornalisti alla pari, a prescindere dal come. Stessi diritti, stessi doveri, stesso esame e stessa qualifica per tutti. Purchè corrisponda ad un lavoro effettivo ancorchè discontinuo e a una professionalità davvero comprovata.
Ma tu sai meglio di me che neppure questo è il reale punto della questione. Il punto è un altro, assai meno nobile. Ho letto, sospeso tra le lacrime e le risa, il proclama che molti dei tuoi capi, tra i quali alcuni signori delle tessere che vicepresiedono ben diciassette ordini regionali e sminestrano in Consiglio Nazionale hanno pubblicato (qui), sentendosi minacciati negli interessi di poltrona propri e dei propri controllati, sul sito dell’Ordine. Dove presentano la ventilata riforma – tenetevi forte – come una presunta guerra dell’”élite dei garantiti” contro i pubblicisti.
“Elite dei garantiti“? Fumo negli occhi, nient’altro che fumo negli occhi ad uso dei molti babbei che, per stupidità o cointeresse, abboccheranno alla panzana. La verità, caro pseudocollega, la conosci benissimo. E te lo dice un professionista che “garantito” non lo è nè lo è mai stato, visto che ho sempre fatto (anche da pubblicista) il freelance puro. Sai che vuol dire? Vuol dire nessuna garanzia e famiglia da campare con i proventi della mia professione, l’unica che posso svolgere: il giornalista. Ecco, da “professionista per niente garantito”, quale sono e rimarrò, lasciami dire a te e a quelli come te, che pretenderebbero di restare giornalisti a vita non solo occupandosi di tutto tranne che d’informazione, ma pure rivestendo ruoli direttivi nell’Ordine e decidendo quindi, sebbene facciano un mestiere diverso, del destino di chi di giornalismo ci campa, anche un’altra cosa: il tuo tempo è finito. E’ finito con una certa tolleranza pelosa verso i falsi invalidi, i falsi ciechi, i baby pensionati, i malati immaginari, i timbratori di cartellino in mutande, i morti di sonno mantenuti a non far nulla da un socialismo reale mascherato da stato sociale. Siamo arrivati al 50% di giornalisti più o meno finti in un Ordine-monstre di 120mila iscritti: dal cambio del sistema e dalla stretta delle maglie dipende la sopravvivenza sia della nostra categoria che della credibilità del sistema dell’informazione.
I giornalisti veri, pubblicisti e professionisti, hanno compreso perfettamente tutto questo (anche tu, da bravo politico, l’hai ovviamente intuito) e ti stanno voltando le spalle, stanchi del finto dualismo che stai cercando di gabellare. Il loro bisogno di rappresentanza nell’OdG non è soddisfatto certo dalla tua presenza in un Cnog fatto di 144 (uno-quattro-quattro membri) e di cencelliani equilibri numerico/correntizi, con relativo commercio di voti e distintivi, ma da quella di più pochi e preparati colleghi, conterranei o meno che siano, con cui condividere lavoro e interessi, non una qualifica pro forma in funzione del poltronificio rimborsato. Sì, lo so che te la prenderai e ti offenderai per quello che scrivo. Ma mettiti nei panni delle migliaia di giornalisti governati, si fa per dire, da un parlamento professionale oceanico in cui avvocati, notai, idraulici, carrozzieri e architetti, eletti anche grazie ai voti tuoi e di quelli come te, prendono scelte sulla nostra testa in un momento storico in cui il giornalismo italiano sta per scivolare nel dilettantismo, proprio a causa di quei “colleghi” a vita che, di mestiere, fanno appunto i consiglieri dell’Ordine (oltre agli avvocati, notai, idraulici, carrozzieri e architetti).
La festa era finita da un pezzo, ma la stai facendo trascolorare in farsa. Tutti a casa. Cura dimagrante drastica. Lasciamo pure l’elenco pubblicisti aperto a esaurimento, per non sembrare di volersi accanire contro nessuno, come in effetti nessuno si vuole accanire. Ma per favore, ridiamo dignità alla nostra professione. Basta pletore e giornalisti per finta. E speriamo che una riforma arrivata con mezzo secolo di ritardo basti a salvarci.
*da LSDI, il grassetto è di nandocan