Umberto Eco è (sì è stato, ma è e sarà) sinonimo di cultura, di intellettuale. In Italia, in Europa, in tutte le lande. Un caso raro di globalizzazione italiana. Pronunciarne il nome redime il Bel Paese –con le sue arretratezze, le sue cialtronerie- rendendolo più credibile ed autorevole. Né tradizionale, né organica, la sua fisionomia di pensatore è stata un unicum, avendo avuto un ruolo preminente tanto nell’accademia, quanto tra le voci critiche ed originali del Gruppo 63; come pure nella produzione letteraria, saggistica, giornalistica, massmediologica. Insomma, una vera personalità “eclettica” di tipo rinascimentale, benché uno dei punti di qualità di Eco sia stata la riscoperta del Medioevo, impropriamente tramandato dal mainstream storico come luogo buio e mediocre. Tutt’altro. Ansie, teorie complottarde, miti, fondamentalismi feticistici ed angosce della modernità si ritrovano in quei secoli, pieni di premonizioni. Del resto, maestro della semiologia e dell’interpretazione dei testi, aveva colto la complessità dell’età di mezzo. Di cui si trova un esito straordinario ne “Il nome della rosa”, il best seller del 1980, rarissimo esempio di cura estrema per la trama narrativa e di attenzione alle questioni teoriche fondamentali fin nelle sfumature sofisticate. Il tutto con un curatissimo corpo a corpo con il Lettore, quello medio, non solo quello delle élite. Infatti, il successo di pubblico è stato persino clamoroso, al livello dei Beatles. Lo studio degli strati culturali profondi della società è uno dei momenti altissimi della ricchissima biografia, in cui si passa con naturalezza da Tommaso d’Aquino, al fumetto, alla celeberrima fenomenologia di Mike Bongiorno. “Apocalittici e integrati” è un cult, di inarrivabile e geniale sagacia.
Passò anche alla Rai, quando il servizio pubblico era nella parabola ascendente, ma poi preferì essere meno vincolato. Pubblicò costantemente con Bompiani, del cui fondatore Valentino fu grande amico. Rimase fedele pure quando la casa editrice entrò nel gruppo Rcs Rizzoli, ma all’atto della celebrazione del matrimonio con Mondadori (Mondazzoli, acutissima definizione) guidò l’uscita dal nuovo trust dando vita insieme ad Elisabetta Sgarbi a “La nave di Teseo”. Un esempio pratico dell’insofferenza verso gli eccessi autoritari (tra l’altro, aveva appoggiato i referendum contro le televisioni berlusconiane nel 1995) e di un’infaticabile attività. Fino alla fine, malgrado la malatti. Instancabile, Eco ha avuto la capacità di deridere in modo sapiente la banalità del potere, insieme ai saperi separati e inutilmente supponenti. E coraggioso nel mettere alla berlina il dilagare dell’imbecillità, anche in rete.
Sempre presente nelle battaglie democratiche e civili, non abbracciò la stretta militanza politica, benché fosse nota la simpatia per la stagione dell’Ulivo di Romano Prodi. Non per caso partecipò al seminario tenutosi nel 1997 a Gargonza, nel senese, che doveva essere l’occasione del rilancio dell’esperienza. Purtroppo non andò così.
Si sono dette e scritte -in queste ore- cose bellissime su Umberto Eco, meritatissime. In Italia e nel resto del mondo, come ha sottolineato Alberto Asor Rosa. Di lui ci mancherà l’enorme biblioteca di conoscenze che indossava come la pelle, per parafrasare McLuhan. Sentiremo il vuoto delle presenze assidue nel dibattito pubblico, essendo Eco uno degli ultimi riferimenti accreditati e riconosciuti. Capace di far amare Joyce e Topolino, le virtù del pensiero filosofico e la forza seduttiva dei quiz, la televisione e il libro. Quest’ultimo insostituibile, sempre. Il passato non è pura archeologia, bensì memoria viva e anticipatore del futuro. Così ha insegnato il valore della catalogazione (le liste) delle conoscenze. Solo una particolarissima intelligenza ci può riuscire. Ecco, l’intelligenza, nel senso etimologico dell’intelligere , è ciò che ci ha terribilmente lasciati. Ad esempio, le perfette deduzioni e controdeduzioni sul vero e sul falso alzano la soglia –come in una palestra- delle nostre facoltà mentali.