[Traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Paul Rogers pubblicato su openDemocracy]
Un tema ricorrente di questa rubrica negli ultimi quattordici anni è stato l’allargamento costante della forbice tra ricchezza e povertà, che adesso non sembra più rappresentare una divisione tra Paesi ricchi e Paesi poveri, ma tra un’élite transnazionale e una maggioranza emarginata.
L’analisi stessa della situazione deve mantenere il passo con la rapidità dei cambiamenti. Già un decennio fa, è stata utile la nozione di “doppia élite”. Un quinto della popolazione mondiale si stava allontanando dai rimanenti quattro quinti, sia in termini di reddito che di benessere; in entrambi i casi la minoranza più ricca deteneva una quota dell’80% o superiore. Inoltre, il gruppo ristretto dell’élite, che rappresentava circa l’1% della popolazione mondiale, sembrava accumulare ricchezza a un ritmo sostenuto.
I dati riportati dall’Oxfam nel rapporto “Wealth: Having It All and Wanting More“ (gennaio 2016) confermano l’importanza di questa separazione, e – cosa più importante – sottolineano la rapidità con cui il divario si stia ampliando, specialmente all’interno della super-élite. La popolazione più ricca (1% – circa 72 milioni di persone) possiede la stessa ricchezza del restante 99%; solamente 62 miliardari controllano più ricchezza della metà della popolazione mondiale. Il divario si è esteso a un ritmo accelerato, mentre i poveri sono sempre più poveri.
Le cause di questa grande diseguaglianza sono già note. Sull’argomento sono state pubblicate ottime opere da, tra gli altri, Kate Pickett e Richard Wilkinson (The Spirit Level) e David Hulme (Global Poverty: Global governance and poor people in the post-2015 era). Tuttavia, il rapporto dell’Oxfam mostra il rapido aumento delle proporzioni dell’abisso tra ricchezza e povertà nel mondo.
Tale rapporto si incentra anche sulle possibili risposte al problema, compresa una maggiore attenzione all’evasione fiscale (alla luce di 7.600 miliardi di dollari depositati su conti offshore, evitando così 190 milioni di dollari di tasse all’anno). L’organizzazione consiglia anche di investire maggiormente nei servizi pubblici e di attribuire maggiori risorse ai cittadini che appartengono alle classi più povere della società.
Stabilire i nessi
Se la divisione tra ricchezza e povertà è stato un tema affrontato in molti miei articoli, lo è stato anche il problema del cambiamento climatico. L’argomentazione fondamentale è che un mondo diviso in cui esistono limiti ambientali per la crescita deve affrontare pericoli nuovi. In tali circostanze, le comunità elitarie cercheranno di controllare le ‘rivolte dai margini della società’. Ma tali tentativi saranno fallimentari e comporteranno un’ulteriore instabilità e violenza nel mondo. L’unica opzione è una revisione radicale della sicurezza che vada nell’ottica di un modello radicato nell’uguaglianza e nella sostenibilità.
In un periodo in cui il neo-liberalismo permane così profondamente radicato nella mentalità dell’élite, e il cambiamento climatico è visto come un problema marginale, sembra illusorio attendersi che tale ipotesi attecchisca. Ma ci sono anche notizie positive: una maggiore consapevolezza dei pericoli del divario economico, e una maggiore considerazione (finalmente) dello sconvolgimento climatico.
Con riferimento a quest’ultimo, il summit sul clima di Parigi tenutosi nei mesi di novembre e dicembre 2015 è da considerare tempestivo nell’azione di sensibilizzazione. Le opinioni riguardo agli esiti del summit sono diverse, c’è chi lo ha visto come un importante passo in avanti, chi l’ha considerato un fallimento e altri come un dibattito fine a se stesso. Non possiamo tuttavia dubitare del fatto che le attuali tendenze climatiche rendono inevitabile la questione.
Ciò è confermato anche dalle notizie pubblicate in seguito al rapporto Oxfam. Il 2015 è stato confermato come l’anno più caldo in tutto il mondo dal momento in cui sono stati resi disponibili dati più accurati. E sono importanti altri due elementi: il 2014 aveva già superato i picchi precedenti, e il 2015 è stato sensibilmente più caldo rispetto al passato. Inoltre, la tendenza che si osserva è di un “calore improvviso che si è manifestato anche quest’anno turbando i modelli climatici in tutto il mondo” (cfr articolo di Justin Gills, “2015 was hottest year on record so far” – [Il 2015 è stato l’anno più caldo mai registrato finora – New York Times, 21 gennaio 2016, NdT].
Fondamentalmente, la spiegazione è che il modello di fondo del riscaldamento è oggi in sincronia con un’‘ondata’ a breve termine proveniente dall’emisfero sud che stava precedentemente in una fase di raffreddamento, e che per alcuni anni ha in un certo modo rallentato il tasso del riscaldamento globale. Questa cosiddetta ‘pausa’ è stata molto gradita e citata dalla comunità del rifiuto [del cambiamento climatico, NdR], ma ora che i due elementi stanno collaborando è molto probabile che il riscaldamento globale proseguirà per tutto il decennio.
In generale, quindi, le due tendenze globali più importanti – un modello economico neo-liberale che non si adatta allo scopo e una biosfera che non può far fronte a tale modello – sono riconosciute come le più grandi sfide che la società umana abbia dovuto affrontare. Molti articoli di questa rubrica nonché innumerevoli studi su queste tematiche hanno messo in evidenza quanto lavoro sia in corso in tutto il mondo per lo sviluppo di nuove forme economiche e per rispondere all’esigenza di orientarsi verso economie a basso consumo di emissioni di carbonio. Ci sono pertanto molti motivi per essere ottimisti.
La sfida che resta in piedi è quella di trasformare la conoscenza e le possibilità in azioni concrete nei prossimi mesi e (pochi) anni. Il rapporto appena pubblicato rafforza questo messaggio, suggerendo che il mese di gennaio del 2016 potrebbe acquisire un’importanza storica particolare.