“Dare voce a chi non ha voce”. È questa la missione del giornalista. Padre Giulio Albanese è il missionario comboniano che nel 1997 ha fondato la Misna. Per anni i missionari hanno mandato notizie dai diversi Sud del mondo e adesso che l’agenzia sta per chiudere si spegne una luce già fioca sulle tante periferie del pianeta. Articolo21 ha chiesto a Padre Giulio se la storia della Misna sia davvero finita ma anche in che modo l’informazione italiana si occupi della “umanità dolente”. Prima di iniziare l’intervista, Padre Giulio mi racconta la recente storia della Repubblica democratica del Congo dove da anni si combatte drammaticamente tra fazioni avverse. Mi invia una foto appena scattata che proviene da questa terra: un uomo tiene in mano la testa sgozzata di un altro uomo. Non è solo l’immagine del sangue ad atterrire ma il fatto che queste tragedie siano relegate nell’oscurità.
Perché?
Nel nostro paese c’è un’ignoranza crassa e supina soprattutto per colpa di chi fa informazione. Non me la prendo con i giornalisti che devono rispettare i “diktat” della volontà dei loro direttori o meglio, della proprietà degli editori. Il vero problema è che la macchina informativa guarda esclusivamente all’aspetto commerciale. Dare voce a chi non ha voce non riguarda solo l’etica: per chi fa questo mestiere dovrebbe essere un must. Ma si è miopi nel non voler capire che l’informazione sul Sud del mondo è anche strategica perché genera interesse. Se noi continuiamo a narcotizzare il cervello della gente con la cronaca rosa, il gossip e un’informazione politica becera è ovvio che le persone si disaffezionano: non sono stimolate. Mentre i giornali perdono lettori, manca la capacità di capire che viviamo nell’epoca della globalizzazione, dove non esistono più frontiere. I problemi degli altri sono inevitabilmente i nostri problemi e hanno a che fare con il nostro modus vivendi e col nostro modo di essere consumatori. Nell’ex Zaire, uno dei tanti motivi per cui si combatte è la presenza di materie prime che vengono utilizzate per assemblare i satelliti, per la componentistica dei nostri cellulari. L’informazione è la prima forma di solidarietà perché è quella che spalanca le coscienze: informasi è un dovere, essere informati un diritto e chi fa informazione ha questa grande responsabilità: promuovere la consapevolezza.
Quando invece l’informazione si occupa di quel che avviene nei Sud del mondo, in che modo lo fa?
Se ne parla spesso in maniera molto superficiale, pressappochistica, manichea: dividiamo tra buoni e cattivi. La redazione esteri nei giornali è il fanalino di coda e l’inchiesta è totalmente assente. Non voglio fare di tutte le erbe un fascio e bisogna riconoscere la competenza di giornali come il manifesto o l’Avvenire. Ma in generale le informazioni schizzano via alla velocità della luce eppure sappiamo poco e niente di quello che succede a Timbuktu, Dar es Salaam, Giuba, Kampala e questo è un peccato mortale. L’informazione, da noi soprattutto, continua ad avere una valenza fortemente istituzionale. Il giornalismo lo si fa a raffiche di comunicati stampa e come scriveva il grande Lepri: “non sono più i giornalisti che cercano le notizie ma sono le notizie che cercano i giornalisti”. La pagina esteri è dedicata solo agli accadimenti legati a Bruxelles, alle Nazioni Unite, al governo americano. Quando c’è una crisi catapultiamo qualche inviato che non ha conoscenza della materia ma è costretto a seguire la cronaca. Questa mancanza di competenze è un altro aspetto che lascia a desiderare della pagina esteri. Il giornalismo competente è di nicchia e si trova coagulato in alcune pubblicazioni come Limes o Nigrizia che sono però per gli addetti ai lavori. Per attirare i lettori però mandiamo inviati a seguire il Royal Baby. Le persone però non sono deficienti e se continuiamo a volare basso, saremo i primi responsabili della disaffezione.
Abbiamo seguito il fenomeno migratorio: la cosa sconvolgente sta nel raccontare solo la fase terminale. Non spieghiamo mai alla gente quello che succede nelle terre di origine ma solo quello che accade da noi. Se aiutassimo le persone a capire, nelle zone d’Italia dove provincialismi, regionalismi e nazionalismi sono più evidenti, sono sicuro che la chiusura nei confronti del fenomeno della migrazione verrebbe quantomeno attenuata.
Non è normale soffermarsi su quanto accade in casa nostra data la vicinanza anche fisica degli eventi?
Non è legittimo nel 2015. Prima non c’erano Internet e la rivoluzione digitale. È assurdo che chi fa informazione continui solo a parlare di quello che succede sotto l’ombra del proprio campanile. È moralmente inaccettabile. In altri Paesi come Francia e Spagna, la pagina esteri è una pagina davvero come Dio comanda. Questa differenza con l’Italia è dovuta al fatto che la pagina politica prende sempre il sopravvento mentre l’attenzione agli esteri è spesso parziale, superficiale e genera anche grande confusione.
La classe dirigente rispetto ai temi di politica estera è latitante o si limita alla cornice europea; manca una visione olistica e molti dei nostri politici, come molti giornalisti, rispetto agli esteri sono sprovveduti. Non sappiamo cosa succede nel resto del mondo, lo dimostra il modo in cui abbiamo commentato i fatti di Parigi. Dovremmo cercare di capire perché tanto risentimento nei confronti dei paesi occidentali e invece il nostro modo di fare opinione spesso scade nell’opinionismo. Non si può essere dei tuttologi, bisogna avere conoscenza della materia. Anche le grandi firme devono averne.
Lei che da sempre conosce l’Africa, può fare qualche esempio di come l’informazione tratti le problematiche di questa terra?
Il nostro sistema massmediale e informativo per due anni ha drammaticamente e colpevolmente abbandonato la Libia: manca la costanza nell’accompagnare i fatti che si verificano nelle periferie del mondo. Ci si limita a quelli istituzionali e lo stesso avviene per le crisi mediorientali. La Francia segue ogni giorno la crisi somala, noi abbiamo ex colonie come l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia di cui non si parla mai. Eppure gli eritrei che continuano a sbarcare nel Bel Paese sono tanti. Il desk di Nairobi della Rai a mio avviso è sottoutilizzato e a meno che non ci siano fatti di cronaca eclatanti fa fatica a trovare spazio. Invece in un momento in cui l’emigrazione dall’Africa è così elevata mi aspetterei lavorasse ogni giorno. Il modo in cui viene trattata l’Africa sulle nostre pagine è di una superficialità allucinante: si scrive che il PIL aumenta in molti Stati quando invece i paesi africani sono in svendita.
Nel modo in cui si tratta della Cina poi è evidente un potente condizionamento da parte dell’economia e della politica sull’informazione: lì i diritti umani vengono violati in continuazione ma siccome dobbiamo intrattenere rapporti economici siamo silenti. I cinesi in Africa poi si stanno comportando esattamente come gli spagnoli 500 anni fa e stanno acuendo la corruzione. Ma guai a parlare male della Cina!
Se lo stato dell’informazione sui Sud del mondo è questo, la chiusura del Misna è ancora più grave.
L’intento era quello di utilizzare il network dei missionari in giro per il mondo per dare voce a chi non ha voce. Ai missionari chiedevamo di essere fonti autorevoli, capaci di rispondere alle cinque W. Quando l’ho fondata nel 1997, attraverso migliaia di missionari riuscivamo a coprire zone del mondo dove non ci sono né corrispondenti, né inviati. È stata di fatto la prima forma di citizen journalism. Eravamo nelle zone ombra, periferie tagliate fuori dal resto del mondo, che non vengono prese minimamente in considerazione dall’informazione mainstream. Adesso lo stato dell’arte è che c’è la disponibilità di alcune componenti del mondo missionario ad andare avanti. C’è la disponibilità della Cei. Per venire fuori completamente da questa situazione di crisi certo, non mi sento di dire ancora nulla. Dal mio punto di vista ci sono i modi per intervenire nonostante di fatto le lettere di licenziamento siano arrivate. All’interno della proprietà ci sono sensibilità diverse. Ma qualche spiraglio di luce per la Misna c’è.