“Quando ero piccolo volevo fare il biologo, non ci pensavo nemmeno a fare il giornalista. Questo mestiere è fatto di mille cose, mille sacrifici. Non è per niente facile.Non è facile da nessuna parte, ma qui in Calabria di più, è ancora più difficile”. Lo scriveva Alessandro Bozzo, grande cronista di Calabria Ora morto suicida alle idi di Marzo del 2013. A Cosenza in questi mesi è finalmente entrato nel vivo il processo che vede imputato per violenza privata l’editore che si fece beffe del contratto a tempo indeterminato guadagnato da Alessandro in una lunga e brillante carriera. Ma in realtà lo scritto risale a qualche anno prima, quando entrambi erano finiti in una lettera minatoria arrivata in redazione. Lo si può rileggere in “Avamposto”, un libro di Roberta Mani e Roberto Rossi che per Marsilio editore ricostruiva le storie dei giornalisti infami minacciati dalla criminalità in Calabria. Una storia più complessa di Star Wars, quella della libertà di stampa in punta allo Stivale, soprattutto perché i protagonisti sono impegnati a combattersi fra loro in una saga in cui è difficile riconoscere qual è la banda del bene e quella del male. Di certo c’è che lontana dalle grossolane luci della ribalta di un tempo – che più di una assurda distorsione in una terra dove nulla è come sembra finirono per generarla – con gli anni la situazione è andata ad aggravarsi.
E’ triste notizia di queste ore infatti la disposizione della scorta ad una giovane giornalista in forza al Corriere della Calabria, Alessia Candito. La brava cronista reggina in forza anche a L’Espresso, scrive da tempo sulle nuove dinamiche criminali in riva allo Stretto e, per come ha raccontato il sito della sua redazione, è stata di recente fatta oggetto di alcune mail dal carattere intimidatorio indirizzatele da un ex collaboratore di giustizia oggi latitante in Libano. Sulla questione il cdr della testata “trattandosi di personaggio pericoloso, latitante per fatti di mafia ed in contatto con pezzi deviati dei servizi segreti italiani e non” aveva chiesto ufficialmente una presa di posizione istituzionale. L’assegnazione della scorta è segnale che il pericolo è stato ritenuto concreto dagli inquirenti. Stessa cosa che è successa a tanti, troppi, fra cui Michele Albanese, storico giornalista del Quotidiano della Calabria, che da ormai due anni convive con gli uomini dello Stato chiamati a sottrarlo alla minaccia delle cosche della Piana di Gioia Tauro, dove il parroco di una cittadina invitò i fedeli a prendere a schiaffi Lucio Musolino, cronista del Fatto quotidiano che come Albanese si occupava degli inchini delle statue votive davanti alle case del boss.
Alcuni diranno: sono i pericoli del mestiere. Come se fosse tollerabile che in un paese democratico chi fa il mestiere di (provare a) dire la verità debba vedersi privato della libertà di poter girare indisturbato, di poter incontrare chi vuole, di poter vivere come qualsiasi altro cittadino e, in ultima istanza, di poter continuare a fare il suo lavoro. L’Italia, intanto che sottovaluta, arretra ogni anno che passa nelle classifiche sulla libertà di stampa e nulla fa per porre rimedio a leggi obsolete che portano a casi assurdi come quello che arriva sempre dalla Calabria con l’arresto di Francesco Gangemi, giornalista e politico di 82 anni. I domiciliari all’ottuagenario ex sindaco di Reggio Calabria (esperienza sciolta per mafia nel 1992) sono stati decisi la scorsa settimana in base all’esecuzione di condanne per diffamazione accumulate nel corso della sua lunga e controversa carriera. Se è verosimile che la parola può ferire più della spada, è però certo che nessuna società che si voglia definire avanzata può trattarle allo stesso modo.
Un altro problema enorme e tutto italiano, quello delle cosiddette querele temerarie. Da anni il clima politico sul diritto di cronaca è sempre più pesante e sono diversi gli analisti che sostengono che oggigiorno sia proprio il vuoto normativo sulla diffamazione a rappresentare il motivo perché l’Italia continua ad arrancare nelle classifiche internazionali. I dati del resto non mentono, e cristallizzano la crescita esponenziale delle querele e delle relative richieste di risarcimenti per danni provocati dalla pubblicazione di notizie scomode. La stragrande maggioranza degli atti finisce in un nulla di fatto giudiziario che intanto fa spendere un mare di soldi ed energie allo Stato e all’imputato giornalista, restringendo la sua libertà di cronaca e il diritto di cronaca dei cittadini. Assurdo, basterebbe aspettare che prima che si possa parlare di risarcimenti si accerti il reato ipotizzato con una condanna o che almeno, come avviene in molti altri paesi, chi presenta una querela versi una cauzione pronta a risarcire il querelato in caso di assoluzione o archiviazione. Lontanissima epifania per l’Italia e la Calabria, dove un magistrato ha chiesto in maniera preventiva con una raccomandata mezzo milione di euro al giovane direttore del Dispaccio Claudio Cordova per non essere querelato.
Ma il tintinnìo non si ode solo per le querele. Ormai la questione delle fonti è esploso fino ai corridoi vaticani, ma a latitudini meno giubilari c’è chi come Agostino Pantano a Palmi sta rischiando la galera per ricettazione solo perché ha fatto ciò che si fa da quando è stato inventato il giornalismo: pubblicare atti giudiziari di interesse pubblico come la relazione di scioglimento per mafia del Comune di Taurianova. Ma in realtà basta molto meno, tipo scrivere “in maniera ossessiva sul sindaco”, motivo per il quale Gabriele Carchidi si è visto oscurato preventivamente dalla procura di Cosenza il suo Iacchitè, o porre semplici domande. Antonino Monteleone, inviato di La7, ha osato farle in tribunale a Napoli al giudice coinvolto nel caso De Luca e per questo è stato posto in stato di fermo per quasi sei ore. Il suo è uno dei pochi casi in cui si arrivò a prendere chi lo minacciò bruciandogli la macchina sotto casa, a Reggio Calabria. Una città di una regione dove in questi anni sono state chiuse redazioni come quella dell’Ora della Calabria, rea di non aver cacciato la notizia sul figlio del sottosegretario come le veniva amichevolmente suggerito dallo stampatore (a proposito, che fine ha fatto il processo del caso “Cinghiale”?), o in cui i giornalisti senza nessun preavviso si sono trovati chiusi fuori dalla redazione, come successo ai colleghi della Provincia di Cosenza. Un cartello immaginario fuori dalla porta deve avergli suggerito: questo non è un posto per giornalisti.
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