Due lusinghiere ‘prove’ d’attrice, nel breve volgere di qualche settimana, si susseguono sui praticabili del Quirino di Roma, a pieno merito di una inedita Nancy Brilli (indomata “Bisbetica” di cui scriveremo a giorni) e della ‘meteoritica’, veemente ma melanconica, Lina Sastri, protagonista di una “Lupa” post- verghiana, che nella provvida, misurata regia di Guglielmo Ferro (su adattamento emulsionato tra lingua e dialetto di Micaela Miano), sa essere adeguato baricentro di un’opera radicata nella memoria veritico\realista del teatro italiano, sin dalle sue storiche protagoniste, Ida Carrara, Lydia Alfonsi, Anna Magnani. E alle più recenti Monica Guerritore, Guia Jelo, Mariella Lo Giudice.
Opera qui annodata ad una sorta di ambientazione simbolico-rusticana, ove a primeggiare è il lungo fondale di tela che s’innalza (a cangianti colori, come il passare delle stagioni) simile a incavo di grembo materno; e poi il lungo filare delle spighe di grano (feconde di pane e di vita), presto maculate di papaveri rossi allusivi (da Garcia Lorca a De Andrè) di una ritualità di passione e di morte, che poi è l’essenza stessa (macigno doloroso ma ineludibile) di tanta cultura, antropologia, ‘sicilianitudine’ implosiva di sentimenti estremi e ‘religiosamente’ assolti: come nell’esemplare caso di “Cavalleria rusticana”, che amalgama liturgie di Pasqua, onore e coltello in una micidiale concomitanza di spazio e di tempo.
Accade quindi che alla rappresentazione dello ‘spazio scenico’ originariamente schizzata di evocazioni arcaico\mavare (la casa di della lussuriosa vedova, “sola anima viva che si vedesse errare per le campagne”, nell’ora del vespro, ”alta magra, pallida, che spolpava figlioli e mariti”, contrapposta-in Verga- ai campi arsi e bruciati dalla perenne afa mediterranea: donde arsura di acqua e di libido totalitaria, esaudita) si sostituisca, in questa ‘decontratta’ edizione, una mitigata reviviscenza del ‘vizio di fimmina’ che tutto travolge ed annienta, come erinni vandalica e disfatta.
Giunta ad espiazione nell’atto estremo del genero che, dopo qualche anno di tresca e sortilegio (accettarne la figlia, la dote, pur di ‘giacere’ clandestino con questa Circe dei poveri-cristi), scatena su di lei il pugnale della disperazione e di una collettiva ‘cupio dissolvi’. Che, a mio avviso (messo in guardia dalle parole di Vittorini e di “Conversazione in Sicilia”), è denominatore comune di un universo insulare autoctono e storicamente immoto, poiché contiguo (anche nei ceti più infimi) allo ‘status’ di semidei, di angeli precipitati sulla ‘infame’ terra, che “nulla hanno da emendare o migliorare” rispetto alla mitica perfezione di cui furono (restano?) discendenti. Parola, in questo caso, di Tomasi di Lampedusa, criticamente elaborata da Sciascia, Consolo e (in parte) da Bonaviri, ma in assenza di un radicale ‘disboscamento’ autocritico, politico, antropomorfico. Come dimostrano le recenti polemiche, anzi invettive alle critiche divagazioni (sull’Isola) di Roberto Vecchioni, ospite defenestrato all’Università di Palermo.
Ma, tornando allo spettacolo di Ferro e Sastri (che si avvale di un ottimo cast attorale, con Clelia Piscitello e Giuseppe Zeno in bella evidenza), apprezziamone la presa di distanza dalla “esibizione di ogni forma punitiva di un personaggio incestuoso, sgradito ad ogni modulo di formalismo familistico” (M.Boggio), cui subentra, a me pare, una sorta di adattamento didattico, divulgativo, più che meritevole di una ‘novella dei campi’ necessaria alla conoscenza di un passato non poi così remoto. Allorchè la nazione e nozione Italia faticava ad inerpicarsi sui costoni di una omogeneità sociale basata (e mai perseguita) su integrazioni d’equità civile e disintegrazioni di credenze, ignoranze, resistenze, pregiudizi di un territorio a forma di stivale (“mera espressione geografica”), vessato da oggettive scorrerie di invasori, granducati e capitani di ventura. Su masse vituperate, superstiziose, quindi bigotte, disposte a subire nefandezze mai risarcite, in cambio di pane e piatti di lenticchie.
P.S. Lo spettacolo di Guglielmo Ferro, lo si è capito, ha una sua coerenza e dignità poetico-formale. Resta inevaso,in noi, il dubbio di cosa sarebbe stata “La lupa” in uno degli ‘sconvolgimenti’ che Fassbinder operava rispetto ai classici del teatro passionale-claustrofobico (“Fedra”, “La bottega degl caffè”). E, dunque, ipotizzare un non impossibile passaggio di steffetta che coinvolga i nuovi autori della destrutturazione drammaturgica, specie se familistica e concentrazionaria. Un invito diretto, insomma, a Emma Dante, Antonio Latella, Saverio La Ruina e altri che adesso dimentico….
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“La lupa” di Giovanni Verga adattamento Micaela Miano – regia Guglielmo Ferro- con Lina Sastri Giuseppe Zeno, Clelia Piscitello, Enzo Gambino, Eleonora Tiberia, Simone Vaio, Giorgio Musumeci, Valeria Panepinto, Giulia Fiume – arrangiamenti musicali Franco Battiato -musiche Massimiliano Pace -scene e costumi Françoise Raybaud – coreografia Giovanna Velardi – Compagnia Molière ABC produzioni Roma, Teatro Quirino
Catania Teatro Abc 4\6 gennaio 2016 – Salerno Teatro delle Arti 24\26 gennaio 2016