Ci sono otto persone indagate nel processo condotto dalla Procura di Palermo, dai pubblici ministeri Di Matteo e Ingroia, nel processo intrapreso sulle trattative del ’92-93 tra mafia e Stato dopo le grandi stragi palermitane di Capaci e di via d’Amelio e dei Georgofili a Firenze.Tra gli indagati ci sono i capi di Cosa Nostra come Riina, Provenzano e Cinà ma anche gli ufficiali dei carabinieri del ROS Subranni, Mori e De Donno, il senatore Marcello Dell’Utri, l’ex ministro Calogero Mannino.
A questi si aggiunge ora l’ex ministro degli Interni e vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Antonio Mancino. I pubblici ministeri non potevano fare diversamente perché Mancino nel verbale di interrogatorio del primo aprile2011 a Palermo aveva detto: “Non ho mai avuto conoscenza di una trattativa dello Stato con la mafia”. Ma, ora nell’ultima udienza del processo ha ammesso di essere stato informato della trattativa, “non sapendo della decisione di non prorogare i 41 bis per i detenuti” e aggiungendo: “Il mio nome è stato speso per vendicarsi delle scelte di grande rigore che ho fatto.” Ieri, dopo aver ricevuto notizia dell’avviso di garanzia da cui è stato raggiunto, ha dichiarato: “Il teorema che lo Stato, e non pezzi o uomini dello Stato, abbia trattato con la mafia è vecchio di almeno vent’anni ma non c’è ancora straccio di prova che possa confortarlo di solidi argomenti.”
Ma le contraddizioni nella sua testimonianza resa in diversi momenti negli ultimi due anni sono ormai numerose. Dalla negazione assoluta, pur avendo rivestito tra il ’92 e il ’93 l’incarico di ministro degli Interni sia nel governo Amato che nel governo Ciampi – cioè in tutto il periodo delle stragi di cui accennavamo – alle ammissioni sempre più larghe a mano a mano che le sue dichiarazioni appaiono in contrasto sempre più netto con l’ex ministro Enzo Scotti a cui succede e con l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli.
Sia l’uno che l’altro (e il primo ora anche con un libro intitolato Pax mafiosa o guerra che sta per uscire) hanno parlato della sicura conoscenza da parte di Mancino di quelle trattative che andarono avanti per alcuni mesi e si tradussero nella presentazione da parte dei vertici di Cosa Nostra di un papello che conteneva forti e precise richieste da parte dei mafiosi che riguardavano l’allentamento della repressione contro la mafia, di cui l’articolo 41 bis costituiva un requisito importante, e nello stesso tempo un ammorbidimento complessivo dell’azione repressiva pubblica nei confronti dell’associazione siciliana che difatti si realizzò dopo le stragi e che permise a Provengano di proseguire per molti anni la sua lunga latitanza.
Di fronte ai contrasti tra alcuni dei protagonisti di quegli anni e a notevoli elementi oggettivi che è oggi possibile finalmente iniziare a ricostruire sul piano storico, la situazione dell’ex ministro Mancino appare difficilmente difendibile.
Perché l’uomo politico democristiano che ha ricoperto in quegli anni ruoli di primo piano e, in un certo senso, decisivi per le scelte dei governi in materia di giustizia e di lotta alla mafia ha così grande difficoltà ad ammettere di aver saputo e a spiegare le ragioni che lo condussero a restare immobile e silenzioso rispetto a quell’occulto negoziato così importante per il destino del Paese?
Sono interrogativi questi (ed altri che si potrebbero aggiungere) che hanno ancora oggi un peso politico di non scarsa importanza in un momento in cui emergono notizie di conti correnti di Cosa Nostra custoditi dall’Istituto di Opere Religiose del Vaticano presieduto da Gotti Tedeschi? Ed è altresì noto che le associazioni mafiose italiane hanno rapporti indubbi con una parte della classe politica e dirigente presente in Parlamento e negli apparati dello Stato?
A domande di questo genere dovrebbe poter rispondere il processo di Palermo e, per la parte che lo riguarda direttamente, un protagonista politico di quegli anni come fu di sicuro Antonio Mancino.