BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

E lo Stato sa solo dirti: “Arrangiati!” Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei ministri

0 0

Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, al Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando e ai media

Signor Presidente del Consiglio, l’Italia sarà anche ripartita e sarà pure tornata la fiducia nel futuro, ma deve essere accaduto da qualche altra parte: nell’Italia che vivo io da un po’ di anni a questa parte di ripartenza e fiducia non c’è traccia, la crisi è sempre buia, e se si vede una luce in fondo al tunnel è quella del treno che ti sta correndo contro.

Signor ministro del Lavoro, che fine hanno fatto le misure da lei più volte annunciate, ma sempre rinviate, per il reinserimento lavorativo degli ultracinquantenni e per anticipare il pensionamento degli over 55 che non riescono più a rientrare?

Signor ministro della Giustizia, che ne è stato dell’impegno assunto solo pochi mesi fa dal governo per rendere la giustizia civile più efficiente, meno lumaca e per smaltire entro breve tempo la montagna di cause arretrate?

Troppo vecchi per lavorare, troppo giovani per la pensione

Chi vi scrive è una di quelle cinquecentomila persone (ma secondo alcune fonti saremmo in realtà il doppio) che hanno perso il lavoro dopo i 50 anni e ora sono troppo vecchi per ritrovarlo e troppo giovani per andare in pensione. Persone – almeno quelle che conosco io – che le hanno provate tutte, senza la puzza sotto al naso, disposte ad adattarsi perché, come sancisce la Costituzione, il lavoro è dignità umana, affermazione sociale, indipendenza economica, libertà personale; ma che alla fine si sono dovute rassegnare e hanno smesso pure di cercare. Nel mio caso, poi, oltre alla violazione costituzionale (articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro..”; articolo 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”), c’è anche la beffa della giustizia. Perché io, in realtà, dal 30 aprile scorso avrei già maturato i requisiti per andare in pensione, ma non posso andarci perché una parte dei contributi previdenziali che concorrono a far maturare quel mio diritto da ben 6 anni sono congelati da un contenzioso tra il mio Istituto di previdenza e il mio ex datore di lavoro.

Le furbizie della politica e la giustizia lumaca

Fino al 2009, per 10 anni, ho fatto il capo ufficio stampa della Provincia di Bologna con contratti co.co.co. Uno degli artifizi all’italiana. Essendo bloccati turn over e concorsi, quando la pubblica amministrazione aveva bisogno di sviluppare determinati servizi, in questo caso quello di informazione e comunicazione, ricorreva a contratti esterni, formalmente di collaborazione coordinata e continuativa ma nella sostanza di lavoro dipendente. Tanto che una ispezione del mio istituto di previdenza, l’Inpgi, a fine 2009, accertò la sussistenza di un lavoro dipendente mascherato da un contratto di collaborazione. La Provincia di Bologna fu così sanzionata con una multa da 50mila euro e l’obbligo di versare 5 anni di contributi arretrati all’Inpgi (quelli precedenti, purtroppo, erano già prescritti). Fece ricorso in via amministrativa, ma la Commissione interregionale preposta respinse il ricorso e confermò l’accertamento dell’Inpgi.

Invece di prendere atto e adeguarsi, la Provincia avviò allora una causa di lavoro contro l’Inpgi, a Roma, mentre io ne avviavo una per risarcimento danni nei confronti della Provincia medesima, a Bologna. Ci voluti 4 anni solo per arrivare alla sentenza di primo grado. Il 5 dicembre 2013 il giudice del lavoro di Roma ha dato ragione all’Inpgi e torto alla Provincia, definendo “totalmente infondato” il ricorso e condannandola perfino a pagare per intero le spese processuali. Ma la Provincia, che nel frattempo non c’è più, è stata eliminata dalla “riforma Delrio” e sostituita dalla Città Metropolitana, ha presentato appello contro la sentenza di Roma. L’appello era fissato al 2 dicembre prossimo. Nei giorni scorsi il giudice, che evidentemente ha montagne di arretrato da recuperare e non sa o non gli importa che io e tanti come me siamo appesi a quelle sentenze come i naufraghi all’ultimo pezzo di legno della barca affondata, ha deciso il rinvio d’ufficio: un annetto appena, al novembre 2016.

E a Bologna, dove il giudice in prima istanza non ha accolto il mio ricorso per risarcimento danni ritenendo che per il fatto che non dovevo timbrare il cartellino “non è provato che il rapporto di collaborazione si sarebbe svolto nelle forme del lavoro subordinato”, l’appello inizialmente fissato al 22 gennaio 2015 è stato rinviato, anche lì, di un annetto appena, questa volta abbondante, al febbraio 2016.

La pensione “virtuale” nel mondo delle “percezioni” 

Così, in un mondo sempre più virtuale, che oggi più che sui fatti sembra camminare sulle sensazioni e sugli annunci (non la crescita economica ma la fiducia nella crescita; non il miglioramento della qualità e del tempo della vita ma le maggiori aspettative di vita; non la povertà o la sicurezza, ma la “percezione” della povertà e della sicurezza), io sono un pensionato virtuale con buone aspettative economiche e di vita che però ha la percezione di essere finito in un mare di guai.

Ho 58 anni e, avendo cominciato a lavorare molto presto, ho 39 anni di contributi previdenziali versati. Ho una famiglia, dei figli che dovrei mantenere, il mutuo della prima casa da pagare. Da 6 anni non ho più un contratto di lavoro stabile, da tre sono senza un’occupazione, da due pure senza disoccupazione. Per non interrompere la progressione previdenziale e mantenere aperta una prospettiva pensionistica, negli ultimi due anni ho dovuto versare salatissimi contributi previdenziali mensili volontari.

Ho (avevo) una professione un tempo considerata privilegiata, quella del giornalista, che oggi deve fare i conti con una crisi drammatica dell’editoria, con chiusure di diverse testate, ridimensionamento degli organici, tagli drastici ai bilanci della informazione e comunicazione pubblica. In questi anni sono sempre stato iscritto alle liste di disoccupazione, ma nonostante i consistenti sgravi concessi agli editori per le assunzioni, inizialmente anche a termine ora non più, non è arrivata nemmeno una proposta di lavoro.

Il lavoro che non c’è e le leggi assurde sulla previdenza

Ho mandato centinaia di curriculum, presentato decine di domande, partecipato a selezioni pubbliche che poi, quasi sempre, altro non erano che bandi sartoriali cuciti addosso al predestinato di turno: tutto inutile. Ho presentato progetti editoriali, mi sono proposto per lavori con partita Iva e da giornalista freelance: quasi sempre sono stato accolto da grandi dichiarazioni di interesse dall’interlocutore di turno, purché fossero attività a costo zero: voi, penso, non avete idea di quanti editori e imprenditori ci sono in giro oggi disposti a farvi lavorare gratis. Infine mi sono dovuto accontentare di qualche collaborazione, generalmente mal retribuita. A cercare un lavoro vero ormai ho rinunciato. Tiro avanti con quelle collaborazioni e l’aiuto dei miei cari che ho dovuto chiedere per poter continuare a pagare le rate del mutuo e versare le mensilità della previdenza volontaria. Non sto a dirvi delle umiliazioni, degli effetti che queste vicende provocano sulle nostre vite, nelle relazioni, in famiglia, perfino sulla salute.

Come giornalista, sono anche iscritto a un istituto di previdenza autonomo, l’Inpgi, che finora prevedeva già, ma probabilmente dal prossimo anno non prevedrà più (incombe anche per i giornalisti l’abolizione delle pensioni di anzianità), il pensionamento anticipato con penalizzazioni dai 57 anni di età con 35 anni di contributi versati. Mi direte: e allora, perché tu che hai 58 anni di età e 39 anni di contributi non sei in pensione? Perché questo Paese è maestro nel complicare la vita ai suoi cittadini (o, almeno, a una parte di essi) e sulla previdenza ha partorito leggi assurde. Come quella che prevede per chi fa lo stesso identico lavoro ma con contratti diversi, uno da dipendente l’altro da autonomo, posizioni previdenziali diverse: una principale e l’altra separata, e che non dialogano tra loro.

Il lavoro è lo stesso, la pensione no. 

Tanto per restare al mio caso: io ho 30 anni di contributi giornalistici da lavoro dipendente alla gestione principale dell’Inpgi e 9 anni di contributi giornalistici alla gestione separata, sempre dell’Inpgi. Facevo il giornalista prima, quando ero assunto a tempo indeterminato o con contratti a termine nei giornali, e facevo il giornalista dopo, quando lavoravo come libero professionista e con contratti co.co.co. per la pubblica amministrazione. Nel primo caso, però, i contributi andavano alla gestione principale, mentre nel secondo andavano a quella separata. Stesso lavoro, diverse previdenze. Perché signori del governo? Perché questi due percorsi contributivi, per lo stesso lavoro, ma che non si possono mai sommare ai fini del raggiungimento della pensione di anzianità? Perché le gestioni principali di Inps e Inpgi prevedono ancora le pensioni anticipate, mentre le gestioni separata degli stessi Istituti prevedono solo quelle di vecchiaia?

Si può chiedere il ricongiungimento oneroso degli anni della gestione separata in quella principale, certo. E io l’ho fatto. Mi è stata chiesta la modesta somma di 360mila euro. Naturalmente, dal momento che non sono ricco di famiglia, ho rinunciato. L’alternativa è andare in pensione con il sistema della “totalizzazione”, ricongiungendo le diverse posizioni previdenziali nell’Inps, con un requisito minimo complessivo che al momento, per me, prevede il raggiungimento del diritto alla pensione con 40 anni e 7 mesi di contributi. Ci dovrei arrivare, se riuscirò a versare regolarmente i contributi, da lavoro giornalistico o volontari, nella primavera del 2017. Ma quando maturerò il diritto, per via di un’altra legge all’italiana, quella sulle “finestre d’uscita”, che poi altro non è che l’ennesimo artifizio governativo per posticipare ulteriormente il pagamento delle pensioni, dovrò aspettare altri 21 mesi prima di cominciare a riscuotere la pensione, quindi fino al 2019.

E lo Stato sa solo dirti: “Arrangiati!

Da qui ad allora, per altri 4 anni, se non avrò la fortuna di trovare un nuovo lavoro, dovrei contribuire a mantenere la mia famiglia, onorare le scadenze del mutuo prima casa, versare i contributi previdenziali volontari che mancano, pagarmi l’assicurazione sanitaria dei giornalisti senza avere né uno stipendio né, tanto meno, un aiuto da parte dello Stato (indennità di disoccupazione, reddito minino garantito, sgravi e agevolazioni fiscali). Come farò non lo so. Forse dovrò vendere l’unica ricchezza che possiedo: la casa, già ipotecata dal mutuo.

Maggiori aspettative di vita o di morte?

Che leggi sono mai queste, signor Presidente del Consiglio e signori Ministri? Perché se uno fa un mestiere come libero professionista non deve avere le stesse regole di chi quel mestiere lo fa come dipendente? Perché quando uno matura il diritto alla pensione poi deve aspettare altri due anni prima di percepirla? Non vi sembra immorale uno Stato che da un lato, come accade con la denuncia dei redditi, pretende dai suoi cittadini il pagamento delle tasse addirittura in anticipo e poi, dall’altro, fa leggi per tenere congelati i nostri soldi, anni e anni di contributi previdenziali versati nelle gestioni separate dove maturano pensioni da fame e l’età del pensionamento è ormai prossima ai 70 anni, senza dare neppure la possibilità di usarli per pagarsi l’anticipo del trattamento di quiescenza a chi è troppo vecchio per trovare un altro lavoro e troppo giovane per andare in pensione? Lo “scivolo” ce lo pagheremmo noi, “esodati” a nostra insaputa e senza possibilità di sanatoria, rinunciando a una quota della pensione che pure ci siamo guadagnati, per finanziare la restituzione a rate dell’anticipo. Che ci vorrebbe? Dov’è l’impedimento? Diversamente, più che aumentare per legge, come si sta facendo e con scadenze sempre più ravvicinate, le “aspettativa di vita” degli italiani, tanto varrebbe fare una legge sulle “aspettative di morte” da parte dello Stato per non dover pagare le pensioni: sarebbe meno ipocrita.

Ma si può stare sereni, nel Truman Show

Sono già passati 6 anni da quanto questa storia è cominciata. Altri ne passeranno, e quando finalmente si arriverà alle sentenze definitive, anche se saranno a me favorevoli probabilmente non me ne farò più niente perché, nel frattempo, anche l’Inpgi avrà abolito le pensioni anticipate. Bene che vada dovrò aspettare il 2019. Sempre che, a quella data, la legge non mi abbia allungato ulteriormente la vita, non abbia ulteriormente ampliato la “finestra d’uscita”, o addirittura abolito le pensioni. Però l’Italia è ripartita, c’è più lavoro, la giustizia non è più lumaca e gli ultracinquantenni, che intanto sono diventati sessantenni, possono stare più sereni. In questo Truman show.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21