Ancora non sappiamo chi ha materialmente ucciso a Diyarbakir, Tahir Elci, uno dei più strenui difensori dei diritti civili della comunità curda che lì, in quell’estremo lembo a sud est della Turchia, costituisce la maggioranza della popolazione. Sappiamo però perché è morto, venerdì scorso, assassinato in una strada di periferia, nel corso di una conferenza stampa. Tahir Elci è stato ammazzato perché era un avvocato che faceva il suo mestiere con coerenza e coraggio: denunciava i crimini di un governo che da anni calpesta le più elementari libertà personali e rivendicava giustizia per un popolo massacrato, nel bel mezzo dell’Europa, nel sostanziale disinteresse dei paesi occidentali.
Chi gli ha sparato ha voluto interrompere per sempre quel suo dialogo con i giornalisti, mettendo a tacere quella voce di protesta e di speranza; dando un segnale, oltremodo inequivocabile, a chi era lì per raccogliere e diffondere quel suo grido di dolore, quel suo appello umanitario. Nel mirino di chi ha esploso quei colpi c’era un avvocato e c’erano i giornalisti; c’era quell’anelito di libertà che, poche ore dopo, ha spinto in piazza migliaia di ragazzi, da un confine all’altro della Turchia, per dire che l’esempio di Tahir Elci continuerà a vivere nella lotta di chi resta. Nell’impegno di altri avvocati e di altri giornalisti. Nel grido di dolore e di speranza di chi crede in un’Europa dei popoli, unita nel rispetto del Diritto e dei diritti.