Diffido di un sentimento che sempre più spesso viene citato: l’orgoglio. Soprattutto dopo le stragi di Parigi sente parlare di orgoglio di essere europei, delle abitudini, della democrazia, della cristianità, ecc. Dentro questa parola c’è una parte positiva di consapevolezza del proprio valore, che viene irrimediabilmente intossicata da una componente negativa: la supremazia che disprezza.
L’orgoglio è il presupposto dello scontro (a volte inevitabile), mentre l’attenzione è l’atteggiamento dell’incontro.
Il primo ha una sua “verità” conservativa che si autogiustifica, mentre la seconda è portatrice di autocritica evolutiva, che si confronta. In questo senso, più che di scontro di civiltà, penso si debba parlare di scontro di posture culturali: l’immobilismo dell’orgoglio versus il dinamismo dell’attenzione. Mentre il fronte degli orgogliosi si incendia di stragi e bombardamenti, quello degli osservatori critici cerca i punti di avanzamento della convivenza nelle differenze. Scegliendo il terreno laico del confronto senza ansia di primazia, ma con la paziente convinzione dell’affermazione delle pratiche che riducono la sofferenza dei singoli e dei popoli.
Disarmare l’orgoglio dalla violenza – concettuale e militare – è la prima mossa per una revisione culturale inclusiva, più esigente del semplice pacifismo. Non significa abbandonare la propria identità, ma consentire che possa essere messa in discussione da altre sofferenze. Dovremmo essere orgogliosi solo di una cosa: della nostra attenzione inquieta, sempre disposta ad ampliare i confini della nostra responsabilità.
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