L’uso delle immagini shock di minori: la Rete della diaspora africana (Redani) lancia una campagna per sensibilizzare le associazioni. “Basta con gli spot di bimbi denutriti solo per marketing”. E chiedono un codice di condotta
ROMA – Lo stomaco gonfio, lo sguardo vuoto, la pelle rovinata, le mosche sul viso. Immagini forti, scioccanti eppure sempre le stesse, che ritraggono ormai come da cliché i bambini africani negli spot di raccolta fondi delle principali organizzazioni che si occupano del sostegno all’infanzia in Africa. Immagini che, attraverso la spettacolarizzazione del dolore, “possono uccidere”, prima di tutto la dignità di tanti minori, che ne hanno diritto come tutti. A sottolinearlo è la Rete della diaspora nera africana in Italia (Redani) che ha lanciato, oggi a Roma, una campagna di sensibilizzazione sul tema rivolta prima di tutto alle associazioni che da anni fanno fundraising attraverso l’immagini dello “scheletrino africano”. Il titolo è “Anche le immagini uccidono” ed è corredata da un video realizzato dal regista etiope Dagmawi Yimer.
“Siamo in prossimità del Natale e come al solito durante le feste vedremo girare in televisione le immagini dei nostri bimbi africani ripresi nel peggior modo possibile: scheletrici, con gli occhi di fuori, la mosca sul naso – sottolinea Luigia Cagnetta di Redani, tra le promotrici della campagna -. Noi vogliamo che venga cambiato questo modo di fare marketing. La raccolta fondi può essere fatta anche in modo diverso – aggiunge – anche perché non capiamo come mai questo tipo di immagini cruente riguardano solo i bimbi africani mentre per i bambini italiani, per esempio, si usano più accortezze come la fascia davanti agli occhi. Questo pietismo non ci piace, crediamo che tutti bambini hanno diritto a una pari dignità”.
Sull’uso indiscriminato delle immagini da parte delle associazioni e delle organizzazioni non governative per la raccolta fondi da destinare agli aiuti umanitari e alla solidarietà internazionale, da tempo va avanti un acceso dibattito. Tra gli ultimi ad alzare la voce su una recente campagna di Save the children è stata la rivista Africa (media partner della campagna di Redani) . Alle accuse di voler impietosire per “strappare nove euro al mese” l’organizzazione ha replicato a Redattore sociale, che l’obiettivo è piuttosto quello di “far vedere situazioni inaccettabili per spingere le persone a reagire”. La polemica se il fine giustifica i mezzi o se si tratta solo di pornografia del dolore è, dunque, lontana dallo spegnersi. Così oggi anche la Rete delle associazioni africane chiede con forza alle organizzazioni di cambiare il modo di comunicare.
“Oggi rispetto a molti anni fa le persone sanno quali sono i problemi in Africa e hanno modo di informarsi anche da sole – aggiunge Cagnetta – quindi va cambiato il modo di pubblicizzare i progetti. Chiediamo solo questo, non vogliamo interferire in quello che le associazioni o le grandi organizzazioni fanno. Vogliamo solo che non vengano più proiettate questo tipo di immagini. Ormai l’Africa sta cambiando però di questo non si parla, né si parla di alcune situazioni di benessere: il modo di fare comunicazione è fossilizzato sul bambino africano dalla pancia gonfia, sulla povertà, sul terrorismo e sui disastri ambientali”.
Nel corso della conferenza stampa organizzata oggi alla Camera, alcuni ambasciatori dei paesi africani (da Capo Verde alla Mauritania) hanno chiesto che venga stilato un Codice di condotta per l’uso delle immagini. “Stiamo lavorando step by step – aggiunge Cagnetta -. Con la campagna, che durerà sei mesi, vogliamo sensibilizzare per prima cosa l’opinione pubblica e le istituzioni. Poi chiederemo un confronto alle organizzazioni, sarebbe bellissimo se il codice di condotta lo stilassimo insieme. Per ora vogliamo far capire la nostra indignazione e chiedere dignità e rispetto per i bimbi africani”. (ec)