Del suo lavoro Giovanni aveva un’idea altissima, generosa e nobile. Lui, Giovanni, non si tirò indietro al ruolo di custode del racconto e del giornalismo imparziale e libero. Non scese mai a patti con la sua coscienza, ed assolveva al ruolo di raccontare ed informare la sua comunità, anche se ciò poteva costare care. Giovanni pagò con la sua vita il prezzo del proprio lavoro. Eppure ancora oggi, a distanza di 43 anni dalla sua morte, ci sono tanti aspetti poco chiari su questo omicidio. Giovanni è un martire dimenticato perché vergognosa, inoltre, è la mancanza di memoria della sua provincia, Ragusa, che non lo ricorda, o fa finta di ricordare. Perchè ricordare, spesso, è scomodo. Quindi meglio dimenticare. Giovanni non arretrò nemmeno quando si trattò di pubblicare il nome di un trentenne intoccabile: quel Roberto Cambria, figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa, che la sera del 27 ottobre 1972 lo freddò con sei colpi di pistola. Da quella tragica serata sono passati quarantatré anni, ma in quella terra c’è ancora chi sostiene che, in fondo, “Giovanni se l’è cercata”, magari quasi giustificando l’omicida, con il classico termine “poverino”. Non si può continuare a scambiare i carnefici per vittime. Bisogna ripristinarne la memoria. Lo si deve a Giovanni, alla sua famiglia e ad una intera collettività che merita di ricordare Giovanni come un eroe normale, da spiegare ai giovani perché possano avere proprio lui come modello positivo.