Il 21 e 22 ottobre a Fiesole presentazione dei risultati della ricerca ITHACA dell’Istituto Universitario Europeo su vantaggi e limiti della mobilità degli stranieri regolari in Italia e in altri 3 paesi europei. Il caso dei filippini e dei marocchini
La mobilità delle persone non è stata mai così elevata nel mondo. Gli ultimi dati delle Nazioni Unite sulle migrazioni internazionali parlano di 232 milioni di migranti nel 2013. Secondo l’Onu negli anni dal 2007 al 2012 il rapporto tra il numero di migranti e la popolazione mondiale è rimasto più o meno costante ogni anno: negli ultimi tre anni però la percentuale di persone che hanno lasciato le proprie case a causa di una guerra, rapportata al numero della popolazione mondiale, è aumentata di oltre il 50 per cento. Una mobilità a volte ricercata e volontaria, sempre più spesso forzata.
Di fatto però mai come oggi il numero di persone che hanno legami familiari, relazioni culturali e sociali, attività economiche in più di un paese è stato così elevato. I paesi di origine e di destinazione dei flussi migratori sono sempre più interessati a comprendere le dinamiche tra integrazione e mobilità transnazionale e in particolare quali elementi di analisi devono tenere in considerazione per intraprendere efficaci politiche di gestione e valorizzazione della componente immigrata.
La ricerca europea ITHACA, coordinata dall’Istituto Universitario Europeo, ha raccolto circa 100 interviste con stakeholder e 330 interviste a migranti di 4 paesi europei (Austria, Italia, Spagna e Regno Unito) e ha tentato di rispondere ad alcune domande chiave: quali condizioni nel paese di origine e nel paese di destinazione sono determinanti per valorizzare la mobilità transnazionale? Cosa porta un migrante ad investire nella transnazionalità della sua esperienza e cosa invece lo ostacola? La ricerca ha preso in esame migranti di 5 nazionalità di origine: marocchini, bosniaci, ucraini, indiani e filippini. In Italia sono state realizzate 77 interviste qualitative tra i migranti che mantengono un forte legame con il paese di origine e che, seppur con motivazioni diverse, si possono dire “transnazionalmente” attivi.
Il quadro che emerge dalla ricerca italiana è molto variegato sia per nazionalità che per tipologia di percorso migratorio. Un dato però accomuna le diverse esperienze. La condizione di regolarità prolungata e di maggiore integrazione favorisce la mobilità transnazionale e l’impegno dei migranti sul fronte dell’attivazione di scambi sia commerciali che culturali. La maggiore stabilità sia amministrativa (permessi di soggiorno di lunga durata) che economica, permette l’accumulazione di risorse che vengono investite nel paese di origine e lo sviluppo progressivo di questo investimento.
È il caso ad esempio della comunità filippina in Italia che negli anni è riuscita a creare una fitta rete di centri e associazioni che forniscono assistenza e formazione ai connazionali per migliorare le competenze manageriali rispetto agli investimenti nel paese di origine. Le associazioni di Filippini in Italia sono inoltre tra le più attive in termini di azioni filantropiche e in progetti di sviluppo nel paese di origine. La crisi economica in Italia ha stimolato anche i migranti marocchini ad aumentare le occasioni di scambio con il paese di origine. Nella ricerca di nuove prospettive economiche si è guardato al paese di origine come opportunità di sviluppo e di investimento, di tempo e risorse, complementare o alternativo.
Per quanto riguarda il capitale culturale e relativo al percorso formativo dei migranti, la ricerca mette in luce come in Italia in particolare c’è una scarsa valorizzazione delle competenze dei migranti. Chi ha un alto livello di istruzione spesso non trova un impiego adeguato, sotto-utilizzando le proprie competenze ed esperienze per la difficoltà di riconoscere un titolo di studio ottenuto all’estero e per la scarsa capacità del mercato del lavoro italiano di assorbire personale qualificato. Per questo, si parla spesso di brain-drain – trasferimento di capitale umano a favore dei paesi di destinazione – e over-qualification – quando il livello occupazionale non coincide e “spreca” il livello di istruzione del lavoratore.
Allo stesso tempo è interessante notare che anche per le competenze e le esperienze professionali formali acquisite nel paese di destinazione il trasferimento in direzione opposta, verso il paese di origine, è molto difficile. Ecco che le collaboratrici domestiche decidono spesso di investire in campo agricolo nelle Filippine. La ricerca però evidenzia come se apparentemente l’unico trasferimento sembra essere l’investimento economico finanziario per l’acquisto della terra e per la sua lavorazione, nella pratica si trasferisce ben altro. Si tratta di quelle competenze negoziali e di organizzazione del tempo acquisite nel lavoro in Italia e anche di quelle pratiche relative alla consapevolezza sui temi ambientali legati ad esempio all’agricoltura, alle pratiche di consumo consapevole e sostenibile che vengono definite dalle ricercatrici dell’Università Europea “rimesse sociali”.
Un bagaglio di esperienze e saperi non formali che vengono spesi in modo più o meno inconsapevole e che insieme alle rimesse finanziarie costituiscono un volano di sviluppo importante per i paesi di origine. Dovrebbe quindi essere interesse dei paesi ospitanti favorire percorsi di inclusione e integrazione dei migranti affinché possano diventare attori di sviluppo sia in Italia che nei paesi di origine.
I risultati della ricerca ITHACA saranno discussi il 21 e 22 ottobre in un convegno presso la sede dell’Istituto universitario europeo a Fiesole (FI). Inoltre, alcune delle storie dei migranti intervistati nei 4 paesi europei sono state raccolte nel cortometraggio “Dieci ore da casa”, per la regia di Alberto Bougleux, che mostra i vari modi in cui è vissuta la mobilità transnazionale. (Anna Meli)